05 – parallelismi e convergenze

La geometria euclidea fu l’unica operativamente accettata per secoli e secoli, sebbene Euclide stesso e addirittura, prima di lui, Aristotele, avevano intuito alcune possibilità alternative. Che il quinto postulato “stonasse” con gli altri fu subito apparente, pur tuttavia nei secoli furono moltissimi i tentativi di sua dimostrazione. Prima in maniera diretta, e poi per assurdo.
Particolarmente celebre è la dimostrazione per assurdo di Giovanni Girolamo Saccheri, che, certo del proprio risultato, nel 1733 fece intitolare la propria opera Euclides ab omni naevo vindicatus (letteralmente “Euclide vendicato da ogni macchia”). In seguito sarà dimostrato che la dimostrazione di Saccheri era fallace, ma ebbe il merito di spianare la strada all’avvento delle geometrie non euclidee.
Nel corso del xix secolo, infatti, si resero disponibili (e utili) punti di vista alternativi, che non davano più per scontata la validità del postulato cosiddetto delle rette parallele. In maniera indipendente, il matematico russo Nikolai Lobacevskij (1892-1956) e il militare ungherese János Bolyai (1802-1860) concepirono una geometria nella quale per un punto esterno a una retta poteva passare più di una parallela. Si tratta della cosiddetta geometria iperbolica, nella quale il sistema di riferimento non è più un piano, ma un solido, quale ad esempio la pseudosfera di Beltrami, dal nome del matematico italiano Eugenio Beltrami (1836-1900) che la concepì nel 1867. Nella geometria parabolica sono possibili delle forme triangolari la cui somma degli angoli interni è minore dell’angolo piatto.
Alternativamente, il matematico tedesco Bernhard Riemann (1826-1866) ideò una geometria, detta poi ellittica, nella quale il sistema di riferimento è sferico. In questa geometria, una geodetica (ossia una retta massima, ossia una retta che è traccia sulla superficie sferica di un piano passante per il centro della sfera medesima) non ha parallele, poiché se consideriamo ad esempio una geodetica analoga ad un meridiano del globo terrestre, questa incontrerà tutte le altre geodetiche in almeno due punti, compresi gli altri meridiani (tutti i meridiani si incontrano ai poli).

Le geometrie non euclidee furono essenziali nelle formalizzazioni delle teorie fisiche di inizio del xx secolo, ivi compresa la teoria della relatività generale, poiché sono utili nella rappresentazione di uno spazio non più cartesiano (o euclideo, per l’appunto), nel quale si hanno curvature dovute alla inapplicabilità delle trasformate galileiane di spazio (e tempo). La situazione descritta da Einstein per mezzo della geometria ellittica era quella della curvatura del quadrivettore spazio-temporale in presenza di un grande campo gravitazionale, che provoca la flessione degli stessi raggi di luce.
Nella sua teoria, Einstein preferì adottare una geometria non euclidea, sicuramente più complicata, ottenendo però come risultato una formulazione più semplice; alternativamente, avrebbe potuto usare la “vecchia” geometria euclidea, formulando leggi fisiche più complicate.

05 – l’ellenismo

La durata della civiltà greca abbraccia un periodo temporale che inizia convenzionalmente nel 776 a.C. (data della prima Olimpiade) e termina nel 146 a.C. (annessione della Grecia all’Impero romano).
Il periodo di maggior rilevanza tecnico-scientifica è l’età ellenistica, periodo che va dal 323 a.C. (morte di Alessandro Magno) al 31 a.C. (battaglia di Azio, che segna la trasformazione dell’Egitto in provincia romana).
Alessandro iii, nato a Pella (Macedonia) nel 356 a.C., morto a Babilonia nel 323 a.C., fu imperatore del Regno di Macedonia dal 336 a.C. alla morte. Passò alla storia come “Magno” (dal latino magnus, grande) poiché in soli dodici anni estese il dominio macedone fino alla Valle dell’Indo, inglobando l’Impero persiano, l’Egitto, il Pakistan e l’Afghanistan.
L’ellenismo apportò notevoli sviluppi nel campo scientifico (anche se l’uso del termine “scientifico” è più propriamente utilizzabile solamente dalla fine del xvi secolo con l’introduzione del metodo scientifico da parte di Galileo Galilei); tuttavia questi sviluppi restarono allo stadio della teoria e, solo in pochi casi, furono tradotti in pratica. Anche in questi casi, spesso la finalità era puramente dimostrativa o scenica.
Come suggerisce Alexandre Koyré nel suo saggio Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (Torino : Einaudi, 2000), e nel saggio complementare di Pierre-Maxime Schuhl Perché l’antichità classica non ha conosciuto il macchinismo, esistono alcune ragioni principali per la mancata diffusione delle macchine nella Grecia antica. L’abbondanza di mano d’opera servile a basso costo portò a un disinteresse nella ricerca di applicazioni tecniche a supporto delle attività umane; tale situazione si stratificò socialmente in un pregiudizio riguardo la tecnica e il tecnico: il tecnico era colui che sovvertiva l’ordine naturale, manifestazione terrena della divinità.
Tale attitudine al dominio della tecnica si ritrova ancora oggi in termini quali “macchinazione”: esso ha il significato di “complotto”, “inganno” ai danni di qualcuno, ed è da far risalire anche all’uso delle macchine a fini teatrali, ove la funzione di queste era, in ultima analisi, di “ingannare” gli spettatori, di far loro credere qualcosa che in realtà non esiste.
“I Greci non ambivano a mutilare quell’opera d’arte che è il mondo, mutandone il volto. E c’è in questo una convinzione giusta e bella. Da Bacone in poi, il mondo è diventato per noi un magazzino, una miniera, un fondo al quale attingiamo senza prudenza”; ecco come Koyré riassume le posizione dei Greci rispetto alla tecnica (pp. 128-9 di Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione).

Polo principale dello sviluppo teorico dell’epoca ellenistica è Alessandria d’Egitto, grazie alla presenza della dinastia greco-egizia dei Tolomei, fiorita tra il 305 e il 30 a.C., periodo grossomodo corrispondente alla durata dell’Ellenismo stesso. Il merito culturale della dinastia (in particolare di Tolomeo ii Filadelfo) fu quella di aver impiantato ad Alessandria il primo Museo (non nell’accezione moderna del termine, ma inteso come “luogo delle muse”, una sorta centro di ricerca) con adiacente una biblioteca. L’interesse dei Tolomei per la cultura si tradusse in mecenatismo, con invito ed accoglienza delle maggiori personalità letterarie e scientifiche del tempo.

La figura alla quale si deve la più potente teorizzazione (in ambito geometrico-matematico) fu Euclide (Alessandria d’Egitto 325-265 a.C.) padre della geometria che da lui prese il nome e noto come autore degli Elementi, maggiore opera sulla geometria dell’antichità. Il suo merito in realtà sta nell’aver codificato per primo le proposizioni logiche relative alla geometria, dividendole in:

– assiomi (proposizioni logiche immediatamente ratificabili, definite vere dall’evidenza):
1. cose uguali ad una stessa cosa sono uguali tra loro;
2. aggiungendo (quantità) uguali a (quantità) uguali le somme sono uguali;
3. sottraendo (quantità) uguali da (quantità) uguali i resti sono uguali;
4. cose che coincidono con un’altra sono uguali all’altra;
5. l’intero è maggiore della parte;

– postulati (proposizioni il cui grado di evidenza è leggermente minore dell’assioma; si tratta di assunzioni che consentono di definire in modo più operativo le verità assiomatiche):
1. un segmento di linea retta può essere disegnato unendo due punti a caso;
2. un segmento di linea retta può essere esteso indefinitamente in una linea retta;
3. dato un segmento di linea retta, un cerchio può essere disegnato usando il segmento come raggio ed uno dei suoi estremi come centro;
4. tutti gli angoli retti sono congruenti tra loro;
5. se una retta taglia altre due rette determinando dallo stesso lato angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli retti, prolungando le due rette, esse si incontreranno dalla parte dove la somma dei due angoli è minore di due angoli retti.

Dal quinto postulato, in particolare, si deduce che “data una qualsiasi retta r ed un punto P non appartenente ad essa, è possibile tracciare per P una ed una sola retta parallela alla retta r data” (assioma di Playfair).

04 – viva la revolución!

Un potente mezzo per dividere in filoni di grande respiro la storia della tecnologia è la scansione di José Ortega y Gasset, filosofo spagnolo che nel 1933 (in occasione di una conferenza presso l’università di Santander, presente in José Ortega y Gasset, Meditacion de la Técnica y otros Ensayos sobre Ciencia y Filosofia, Madrid : Alianza Editorial, 1982) sintetizzò l’evoluzione delle epoche della tecnica nella seguente tripartizione: vi fu anzitutto la tecnica del caso (técnica del azar), nella quale le realizzazioni tecniche dell’uomo furono reperite casualmente, come nel caso del fuoco mantenuto da quello acceso da un fulmine, o con tutta probabilità le prime conoscenze in campo metallurgico, che forse derivarono dall’osservazione dei prodotti di focolari destinati alla cottura dei cibi.
Con l’organizzazione in villaggi prima, in città poi, prese a diffondersi una seconda modalità tecnica, che Ortega y Gasset definisce técnica del artesano, volendo con questo dire che colui che attende alla produzione la svolge “verticalmente”, ossia dal reperimento delle materie prime sino alle rifiniture del prodotto finale. Costui trasferisce il proprio sapere in modo diretto, a un cosiddetto apprendista, che lo segue per il tempo sufficiente durante l’esecuzione dell’attività, al fine di assimilarne i metodi e, in qualche caso, i segreti. L’artigiano fa.
Segue poi la técnica del técnico, nella quale il tenutario delle informazioni tecniche può anche non essere una persona, ma un supporto fisico, quale una tavoletta di cera, un manuale, un disegno o un diagramma. Il tecnico non svolge tutte le operazioni necessarie al completamento del prodotto finale, ma sa far fare, dunque coordina, dirige, progetta. Le radici di questo paradigma stanno già nelle grandi realizzazioni tecniche medievali (si pensi alla cupola del Brunelleschi a Firenze), ma sarà solamente con la Rivoluzione Industriale che si entrerà propriamente in questa partizione: le macchine, infatti, sono l’oggetto tecnico fondamentale, che compie le operazioni, ma, ad esempio, provvede eventualmente alla realizzazione di altre macchine.
Oltre la scansione di Ortega y Gasset, la successiva fase potrebbe essere definita come la “tecnica della comunità”, con particolare riferimento alle tecnologie informatiche, che specie dopo l’avvento di Internet prevedono una collaborazione tra individui anche fisicamente molto distanti, ma soprattutto vede nuovi modi di trasferimento della conoscenza e di apprendimento.
Una partizione, si badi, non cancella completamente la precedente, ma vi si sovrappone per una certa parte, lasciando ancora alcune applicazioni al paradigma precedente.

Ed ecco un’ulteriore citazione dal filosofo spagnolo:

O animal é atécnico: se contenta em viver com o objetivamente necessário para o simples existir (…). Porém o homem é homem porque para ele existir significa, desde logo e sempre, bem-estar (…). Homem, técnica e bem-estar são, em última instância, sinônimos.

José Ortega y gasset, Meditación de la Técnica, “Revista do Ocidente”, 1957, p. 24.

03 – le prime invenzioni

La tecnologia metallurgica portò con sé numerose invenzioni collaterali, poiché il processo dal reperimento del minerale sino alla finitura del prodotto coinvolge numerose operazioni: lo scavo (con appositi utensili metallici), il trasporto (con rulli prima, poi con carri su ruote), la fusione (che necessita di soffiaggio con mantici), la fucinatura (con altri strumenti metallici per la percussione del pezzo) e la finitura (con lime e attrezzi simili).
Tutte le operazioni sono eseguite da persone che sempre più si distaccano dalle attività legate all’allevamento e all’agricoltura, alle quali provvedono altre, che grazie all’evoluzione delle tecniche agricole riescono comunque a fornire un surplus energetico. La specializzazione dei lavori è attuabile solamente in centri di una certa dimensione: nascono le città.

Nel campo dei sistemi di trasporto e dei mezzi semoventi, si hanno fondamentali invenzioni:
– la ruota;
– la bardatura degli animali;
– l’aratro;
– la navigazione a vela.

La ruota sostituisce il trasporto su rulli, e il carro su ruote si diffonde nel Medio Oriente sin dal 3.500 a.C. (Mesopotamia e Siria). L’utilizzo di questo prevede un sistema di bardatura degli animali che consenta di convertire la loro forza. Il sistema congegnato non è però ottimale, poiché serra il collo dell’animale, tendendo a soffocarlo proprio quando questo compie il massimo sforzo. Sarà migliorato solamente nel Medioevo. La bardatura è altresì impiegata nell’uso dell’aratro, che parte da una forma estremamente semplice (peraltro mantenuta per lungo tempo, e usata diffusamente dai Romani) per evolversi ed appesantirsi. Anche in questo caso, però, saranno gli aratri pesanti nordeuropei a necessitare della bardatura alla spalla di epoca medievale.
La navigazione a vela appare invece in Egitto, sempre attorno al 3.500 a.C., ed è destinata agli spostamenti fluviali. Il sistema consta della superficie che incontra la forza del vento e dei controlli per sfruttare l’energia così prodotta.

03 – età dei metalli

Alle età della pietra seguono quelle dei metalli: il calcolitico (l’epoca nella quale si utilizza perlopiù il rame), l’età del bronzo (che, secondo le regioni, ebbe inizio tra il 1.700 e il 1.000 a.C., e terminò tra l’800 e il 500 a.C.), e l’età del ferro (grosso modo tra il 1.000 e il 500 a.C.). La variabilità delle date è ovvia, e dipende dall’adozione dei nuovi paradigmi da parte delle diverse popolazioni.

A fianco delle tecnologie metallurgiche, però, è la tecnica della scrittura a segnare il passaggio all’epoca storica: la possibilità di fissare su supporti stabili i numeri, le idee, i pensieri, permette all’uomo, anche senza volerlo, di raccontarsi. L’idea di tempi storici passa proprio per questa condizione.
I primi esempi di scrittura sono ancora una volta diversamente distribuiti: i più antichi reperti mesopotamici risalgono attorno al 3.200 a.C., quelli sumeri al 3.400, quelli della valle dell’Indo al 3.500; e oggi pare possibile definire come “scrittura” le iscrizioni su tavolette di terracotta rinvenute in Romania, nella valle del Danubio, datate con tutta probabilità sino al 5.400 a.C. Sulla valenza di questi reperti la comunità degli storici non ha però una visione univoca.

L’uomo aggiunge altri complementi materiali alla propria vita quotidiana: la terracotta è un materiale che gli permetterà, tra l’altro, la cottura degli alimenti; con i sistemi per la realizzazione dei tessuti, poi, come il filatoio e il telaio, sostituirà le pelli degli animali, sino a prima l’unico modo che aveva per coprirsi.
Il telaio passerà da essere una semplice cornice utile per distendere e rendere lavorabile il tessuto alla struttura che fondamentalmente è ancora oggi, con l’uso dei licci e della bocca d’ordito.
Altra tecnologia complementare all’agricoltura è quella legata alla gestione delle acque: dalla Mesopotamia e dalle altre zone dove la prima richiedeva una costante irrigazione si diffusero tecniche per la conduzione e il trasporto di una risorsa finita come quella idrica. Tra il 5.000 e il 3.000 a.C. norie e altri sistemi di sollevamento, ma anche canali e serbatoi, sono perfezionati, e permettono lo stoccaggio e lo spostamento dell’acqua.

L’agricoltura si diffuse particolarmente nelle aree a clima mediterraneo, caratterizzate da alternanza di estati calde, inverni freddi e stagioni intermedie umide. La vita dell’uomo fu pesantemente segnata dalle stagioni, con distinzione tra quelle nelle quali era necessario il suo lavoro e quelle nelle quali, di conseguenza, poté dedicarsi ad altre attività. Nascono le occupazioni artigianali, alle quali l’uomo si applicherà in modo continuativo quando disporrà di un sufficiente surplus alimentare.
Come si diceva, in corrispondenza del passaggio tra preistoria e storia si situa l’inizio delle lavorazioni dei metalli. Il primo metallo a essere utilizzato proficuamente fu il rame, e al momento attuale, salvo altri possibili ritrovamenti le cui datazioni ancora non sono unanimemente accettate, il primo reperto in rame noto è l’ascia di Ötzi, la mummia ritrovata sul ghiacciaio del Similaun (tra Italia e Austria) nel 1991, e risalente al 3.330 a.C. circa.
La scelta ricadde sul rame a partire dalla lavorazione del rame nativo, non così frequente in natura, ma utile per far prendere confidenza all’uomo a questo metallo, con il quale si fabbricavano utensili per battitura; poi, fu prodotto per mezzo di forni che raggiungevano temperature attorno ai 700° C. La produzione aumentò notevolmente quando ci si approssimò ai 1.000° C.
In maniera quasi casuale, poi, l’uomo comprese che “impurità” incluse nella fusione potevano essere alle volte dannose, come nel caso del piombo (che rende il prodotto della fusione troppo malleabile), e altre molto utili, come per lo stagno (che dava un risultato robusto e malleabile).
Il ferro, con il suo alto punto di fusione (1439° C) fu utilizzato per ultimo, anche se prima il “metallo celeste”, ossia il ferro nativo derivante dai meteoriti, era a disposizione e fu utilizzato da millenni.

03 – età della pietra

Sebbene i ritrovamenti fossili possano ancora retrocedere il (non da tutti condiviso) momento della comparsa dell’uomo sulla Terra, la porzione di tempo dalla quale il genere Homo esiste è, per ordine di grandezza, un millesimo di quella che vede una qualsiasi forma di vita sul nostro pianeta.
Allo stato presente si collocano i primi ominidi a circa 2 milioni di anni fa, ma ai fini della storia della tecnica occorre compiere un’ulteriore avvicinamento, considerando almeno l’epoca denominata come Paleolitico, o età “della pietra vecchia”.
Si suole far iniziare il Paleolitico circa 80.000 anni fa, quando l’uomo per la prima volta poté usare arnesi in pietra. Occorre però spostarsi di altri 40.000 anni per apprezzare una certa evoluzione degli utensili posseduti dall’uomo, ed entrare nel cosiddetto Paleolitico Superiore (quello precedente è, come ovvio l’Inferiore).

In questo periodo l’uomo si sostiene con le attività di caccia e raccolta, e può già disporre di un minimo ma efficace insieme di utensili:
– armi come archi e balestre (nei quali si ha la prima accumulazione di energia e una sorta di prima adozione del principio della leva);
– lance e fiocine per l’esercizio della caccia e della pesca;
– strumenti e armi da taglio, quali asce, coltelli e seghe;
– altri strumenti per l’abrasione, come i raschiatoi (essenziali nella lavorazione delle pelli);
– strumenti per l’asportazione di parti materiali, come mazze, punteruoli e pialle;
– strumenti complementari, ma ai quali sono legate attività particolarmente complesse se paragonate alle precedenti, come gli aghi in osso.

E’ rilevante notare come l’evoluzione biologica dell’uomo, in questi periodi ma sin dalle epoche precedenti, non sia andata nella direzione della forza fisica, quanto verso lo sviluppo dei lobi cerebrali, ciò che consentì all’uomo di adottare sorgenti esterne di energia per svolgere funzioni anche complesse e per le quali si rendeva necessaria una forza ben maggiore di quella che i soli muscoli dell’Homo sapiens potevano fornire.

Al Paleolitico segue (siamo attorno all’8.000 a.C., con variabilità secondo le aree) il Mesolitico, o “età della pietra di mezzo”. La “transizione mesolitica” vide per lo più dei perfezionamenti tecnologici, ma non solo:
– furono migliorati gli arnesi per la caccia e soprattutto per la pesca;
– furono perfezionati gli utensili per la carpenteria, come gli scalpelli, che furono declinati nei vari tipi di sgorbie, e la stessa ascia;
– furono utilizzati i primi mezzi di trasporto, basati sullo scivolamento sull’acqua (canoe, pagaie) o sulla neve (slitte).

Si attua poi la cosiddetta “rivoluzione del Neolitico”, con marcatore fondamentale lo sviluppo delle tecniche agricole. All’interno del Neolitico, pur sempre con una certa variabilità secondo la regione considerata (in ogni caso non si risale oltre il 5.000 a.C.), si ha il passaggio da preistoria a storia.
Guardando agli strumenti a disposizione dell’uomo del Neolitico, tutta la filiera agricola dispone di utensili nuovi: dalle zappe e vanghe per il dissodamento, agli strumenti da taglio per mietere le granaglie (nasce la lama ricurva del falcetto), a quelli da battitura per separare le parti commestibili da quelle erbose o protettive, sino alle prime macine.
E’ fondamentale notare che per produrre questi strumenti ne furono necessari degli altri, in particolare per dare le forme e per forare.
La struttura sociale degli ominidi, sin dall’inizio gerarchizzata in tribù, prende ad avere caratteri più familiari, poiché è la famiglia l’insieme all’interno del quale si svolgono i cicli produttivi. Una fase di espansione delle dimensioni minime dell’insediamento umano, invece, avverrà nel momento in cui si renderà necessaria una struttura complessa per attendere alle grandi operazioni idriche legate al diffondersi dell’agricoltura.

02 – documenti!

(continua il post del 26/02/2010, h. 17.30)

La ricerca storica si basa sui documenti. Ogni teorizzazione, ogni periodizzazione e ogni racconto si devono basare su “pezze di appoggio”, su sostegni materiali che forniscano, direttamente o indirettamente, un insieme di informazioni sul quale i primi si fondano.
Ora, non tutto ciò che ci circonda vale come documento; vi sono delle caratteristiche necessarie perché qualcosa lo sia.
Sinteticamente, un documento può essere definito come:
– un supporto fisico,
– contenente informazioni,
– corredate di:
* autore,
* data
* e luogo.

Nel momento in cui un documento è utilizzato per una ricerca storica, questo diviene una fonte. Tra le fonti, poi, si distingue tra fonti primarie e fonti secondarie.
E’ più comodo definire prima queste ultime, poiché in questo novero sono inclusi tutti i documenti che derivano da elaborazioni storiche. Ogni opera di uno storico (una monografia, un articolo) è una fonte secondaria perché non è una fonte di prima mano; non è una fonte redatta da qualcuno che ha vissuto direttamente un evento, e comunque il suo autore, anche se era presente nel momento in cui si svolgevano gli eventi di cui racconta, ha deciso di basarsi su altre evidenze o testimonianze.
Un esempio può chiarire la distinzione: un manuale di ingegneria del xiii secolo non è stato sicuramente scritto a fini storici, e come tale non è quindi una rielaborazione di documenti secondo il metodo storico. Esso, tuttavia, diventa documento e fonte storica quando uno storico (della tecnologia o di altra branca) lo utilizza, sette secoli dopo, per aggiungere informazioni alla propria analisi. All’estremo, anche una fonte “originariamente secondaria” come un manuale di storia del xix secolo, può diventare una fonte primaria quando non lo si considera per le nozioni in esso contenute, ma per la visione che fornisce sul modo di intendere la storia in un certo contesto.
La ricerca bibliografica prevede poi l’applicazione di alcune norme operative, non lontane dal senso comune, ma da tenere sempre presenti nell’economia dello studio intrapreso:
– banalmente, le fonti devono rispondere ai requisiti di contenuto (se ci si occupa della storia di un trattore, saranno le riviste di agricoltura a poter essere inserite nel novero delle possibili fonti; a priori, non certo quelle di metallurgia);
– le fonti devono essere geograficamente accessibili: la Smithsonian Institution di Washington possiede numerose collezioni bibliografiche, ma per un europeo la sua accessibilità è relativamente bassa, se non si dispone di adeguati fondi;
– le fonti devono essere fisicamente disponibili: banalmente, un testo non deve essere in prestito o in restauro;
– le fonti devono essere efficacemente consultabili: esistono numerosi manoscritti la cui visibilità e leggibilità sono addirittura negate.

Tenuto conto di queste regole, non rimane altro che iniziare lo studio vero e proprio. Sino alla successiva necessità di consultazione bibliografica.

02 – la storia nel caos

(continua il post del 26/02/2010, h. 17.00)

Il saggio di Carr affronta ancora un tema che sembra anticipare una teoria, che proprio negli anni attorno alla pubblicazione di Sei lezioni sulla storia vedeva la comparsa di un articolo fondamentale. Si tratta della teoria del caos (e di quella dei frattali, alla prima intimamente legata), con l’articolo di Edward N. Lorenz Deterministic non-periodic flow, apparso sul “Journal of the Atmospheric Sciences”, vol. 20, pp. 130–141 (1963). Per quanto la trattazione del problema sia non banale, il messaggio principale che ne viene, e che ben si adatta a una giustificazione del metodo storico per come definito qui sopra, è il seguente: piccole, quasi insignificanti modificazioni (propriamente, “nel continuo”) delle condizioni iniziali possono portare a mutamenti radicali (propriamente, “nel discreto”) nei risultati finali. Il naso di Cleopatra e la scimmia di re Alessandro sono esempi di questi piccoli fattori perturbanti iniziali, che hanno risultanze enormemente maggiori.
La storia è così in balía di ogni refolo di vento?
Anche qui viene in soccorso l’assunzione per la quale i fattori più importanti determinano l’andamento di fondo delle vicende storiche. Esistono variazioni indotte da nasi e scimmie, ma si tratta di “disturbi” che in realtà non mutano le correnti di lungo corso; anzi, in alcuni casi si potrebbe dire che ne facilitano l’emergere.
Secondo Carr, è pur vero che i grandi uomini hanno plasmato la storia, ma se fossero nati e vissuti in epoche o luoghi diversi, non sarebbero certo stati grandi uomini. Seguendo la definizione di Hegel, “il grande uomo è l’unico che sia in grado di esprimere la volontà del proprio tempo, di dire al proprio tempo quale sia la sua volontà, e di esaudirla”. Sempre secondo Carr, il grande uomo rappresenta forze già esistenti o che egli stesso contribuisce a suscitare con la sua sfida all’autorità esistente. Niente paura, la storia ha le idee chiare, anche se per noi non sono facilmente visibili.
Un’analogia che può forse chiarire come gli eventi singoli e le azioni dei singoli siano o di poca rilevanza, o addirittura non facciano altro che andare – o favorire – in una direzione già tracciata, è quella della valanga. Un fronte di valanga è caratterizzato da una sua instabilità, ossia è probabile che esso si stacchi e scenda verso valle. Non è però agevole sapere quando ciò avverrà, e soprattutto quale sia l’evento che provocherà il distacco. Una palla di neve lanciata a terra in un punto può non sortire alcun effetto, così come mille altre; una successiva sola, invece, può agire su di un punto, una singolarità della conformazione fisica della parete, provocando l’inizio della discesa del fronte nevoso. Ancora, il punto nel quale può si può originare tale evento non è unico, ma nessuno tra questi è noto a priori. La palla di neve non è per forza diversa dalle altre (si concede che è probabile che se è più grande, possa essere più possibile la rottura del fronte); è la sua presenza in un certo punto in un certo istante (non nel cuore dell’inverno, ma in primavera, ad esempio) a rendere l’azione di quella palla determinante.
Nell’analogia, basta sostituire all’idea di fronte della valanga un contesto storico (sociale, economico, tecnologico, religioso, ecc.) e a quella del lancio della palla di neve l’azione del singolo individuo: vi sono delle tendenze di fondo che non possono essere create dai singoli individui; questi, tuttavia, possono essere la causa scatenante di mutamenti di grande portata. Questi avevano già grande probabilità di accadere, e l’azione del singolo non ha fatto altro che dare loro il via.

Quali sono i doveri di uno storico? Il suo agire deve seguire dei dettami etici? Verrebbe da dire che, dati per assunti quelli metodologici, il loro unico dovere è la documentazione: non devono cioè, nell’opera e nell’attività dello storico, entrare attivamente principi etici o morali. Lo storico non deve giudicare ciò che racconta e descrive, pena la distorsione delle valutazioni. Ecco nuovamente la comunità degli storici (si parla sempre di quella principale; potrà sempre esistere, ad esempio, una piccola comunità di storici che supporta il negazionismo) chiamata in causa: se il singolo dà giudizi di merito, sarà essa a riportarlo nell’ambito delle conoscenze condivise.

La storia è oggetto fortemente sociale, nell’oggetto di studio e nella modalità di compimento. Fare storia è come solcare un campo prima della semina. Il terreno è sempre lo stesso, e i solchi fatti dall’uomo si assomigliano, ma non sono mai i medesimi.

(continua)

02 – uno, nessuno e centomila

(continua il post del 26/02/2010, h. 16.30)

La moltiplicazione delle nozioni a disposizione pone problemi sull’uso di Internet come mezzo conoscitivo: pur in presenza di raffinatissimi motori di ricerca, la sensazione dello storico può ancora essere quella descritta ormai una quindicina di anni fa da Umberto Eco, che si descriveva come overwhelmed, “travolto”, dall’immensa mole di rimandi che “la madre di tutte le liste”, ossia Internet, gli proponeva una volta inserito un innocuo “Jerusalem” come chiave nel motore di ricerca. L’attitudine critica rispetto al mezzo Internet deve essere ben presente in chi lo voglia utilizzare come fonte per le proprie ricerche; se si eccettuano le pubblicazioni di articoli cartacei, tutti gli altri materiali devono poter essere attentamente verificati, anche se appartengono (è il caso di Wikipedia) a una rete sociale (si passi la traduzione di “social network”) che per definizione provvede alla loro revisione critica spontanea.
Ciò poiché l’accesso alla pubblicazione sul mezzo Internet è di qualche ordine di grandezza più facile rispetto a quello sulla carta. Attivare un blog non costa molto, anche nulla per l’utilizzatore, mentre una pubblicazione cartacea ha costi di produzione ripetuti ogni volta. L’attenzione alla validità dei contenuti è fondamentale per la stessa sopravvivenza del mezzo (posso invece scrivere un sacco di fandonie su di un blog senza per questo vederne la chiusura per la non rispondenza dei suoi contenuti con la posizione dominante degli storici su di un certo argomento).

La storia come insieme di fatti e andamenti univocamente determinati non esiste; esiste una nozione (e un suo corrispondente operativo) di storia socialmente e contestualmente variabile, ma in ogni momento coerente con le scelte operate da una stretta cerchia di persone, costituita dai professionisti del campo, gli storici, per l’appunto.
Le interazioni, i rimandi incrociati, le citazioni costituiscono i mezzi attraverso i quali le teorie dei singoli storici sono incluse e fatte proprie dalla comunità; si crea una rete di rimandi, che dà forma a una massa critica di nozioni e interpretazioni, che ha come effetto secondario l’esclusione di una costellazione di studi e pubblicazioni non incorporati perché ritenuti a vario titolo spuri (come la caduta da cavallo di cui sopra).

A questo punto sorge un dubbio: se la storia che studiamo dipende dalle decisioni di pochi, ci possiamo fidare di come è stata “fatta”?

Lo storico inglese Edward H. Carr, è autore di un volumetto, Sei lezioni sulla storia (Torino : Einaudi, 1966), dove espone alcune idee in merito alle ragioni del fare storia e alle motivazioni ultime per le quali la si fa.
Carr ritiene che il lavoro dello storico non possa essere paragonato a quello di un avventore che scelga dei pesci ben ordinati su di un banco al mercato, ma piuttosto alla fatica di un pescatore che si trovi a cacciare le sue prede in un oceano sconfinato. Il punto di partenza è nuovamente quello di Borges: l’infinità del reale (ma se la si tratta come indefinitezza il presupposto non cambia di molto) deve essere commisurata a termini manipolabili per l’uomo.
Aggiunge pure che uno storico non potrebbe mai scrivere due libri uguali su di uno stesso argomento, sostenendo come una qualsiasi interpretazione, oltre che soggettiva, è pure contestuale, dipendendo, ad esempio, dalle ulteriori conoscenze acquisite dallo storico e dalle sue relazioni con la comunità scientifica.
La situazione sembra peggiorare; la storia pare essere sempre più un capriccio di pochi.
Tuttavia, aggiunge lo storico inglese, “Il processo di ricostruzione guida la scelta e l’interpretazione dei fatti e anzi trasforma questi ultimi in fatti storici: i fatti senza un’interpretazione sono simili a sacchi vuoti, afflosciati su se stessi poiché privi di contenuto”. In qualche modo dobbiamo cioè metterci nelle mani di qualcuno che scelga e interpreti, per quanto particolarmente e soggettivamente, un insieme finito di avvenimenti, poiché questo è l’unico modo per non lasciarci travolti (overwhelmed) dalla potenza del continuo del passato.
Nessuno si deve così spaventare se “Chiunque faccia professione di storico, sa, se si ferma un istante a riflettere sul senso del proprio lavoro, che lo storico è perpetuamente intento a adeguare i fatti all’interpretazione e l’interpretazione ai fatti. E’ impossibile assegnare un primato all’uno o all’altro momento”. La soggettività alla base del lavoro dello storico è presupposto immancabile per la sua comprensione dei fatti e delle situazioni; sarà la comunità degli storici a vagliare, smussare, validare e accettare o rifiutare tutte o parte delle teorie esposte. La storia, in ultima analisi, è fatta non da un uomo, ma dagli uomini. Imperfetta sì, ma quanto di meglio si possa avere in giro.
Così come il metodo scientifico oscilla costantemente tra il momento sperimentale e la sintesi dei dati in una teoria, così il metodo storico oscilla tra la selezione dei fatti e l’interpretazione di questi.

Carr prende poi le distanze dagli storici idealisti, come Collingwood, o von Ranke, al quale si deve l’affermazione secondo la quale la storia deve parlare “di ciò che è realmente accaduto”:
“Siamo ben lontani dall’Ottocento, allorché gli scienziati, o gli storici, si aspettavano di poter fissare un giorno, mediante l’accumulo di fatti debitamente saggiati, un insieme di cognizioni che avrebbe risolto una volta per tutte i problemi rimasti aperti. Oggi, tanto gli scienziati che gli storici nutrono la speranza, ben più modesta, di passare via via da un’ipotesi circoscritta a un’altra, isolando i fatti per mezzo delle interpretazioni, e saggiando le interpretazioni per mezzo dei fatti”.

Nel momento in cui il metodo storico sembra allontanarsi dalle pretese di precisione e verificabilità, si avvicina invece al metodo scientifico, per come definito da Karl Popper. Le “congetture e confutazioni” di popperiana memoria sono un traguardo più realistico, e operativamente sono molto più utili. Parafrasando la posizione dell’epistemologo austriaco, potrebbe essere utile pensare un racconto storico come un modo per stimolare ulteriormente la ricerca, aggiungere nuovi documenti, nuove fonti, e modificare il racconto iniziale, per farlo aderire maggiormente a quella che si ritene la Storia.

(continua)

02 – la storia non esiste

Che cos’è la storia? Esiste una Storia? Che cosa si trova scritto in un libro di storia, generalista o settoriale che sia? Perché un accadimento è da ritenersi un fatto storico e un altro no?
La storia in quanto disciplina studia determinati insiemi di eventi, fenomeni, andamenti e oggetti che, per accordo di una comunità di studiosi, sono da ritenersi utili per la comprensione del passato.
Questa definizione non è esattamente operativa, ma questa la si deriva facilmente: la storia è anzitutto selezione. Non tutti gli eventi diventano oggetto di studio degli storici; non tutte le evoluzioni di conoscenza, non tutti gli andamenti di fenomeni sono giudicati suscettibili di analisi.
Due esempi estremi possono dare l’idea di che cosa potrebbe accadere disponendo della possibilità di infinita capacità di registrazione e rappresentazione.

Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta […]. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. […] Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. […] Egli ricordava […] non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata.

Il brano è tratto da Jorge Luis Borges, Funes, o della memoria, in Finzioni, in Tutte le opere, Milano : Mondadori, 1984-85, vol. I, pagg. 712-713.

In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl’Inverni.

Questo estratto invece arriva da Jorge Luis Borges, Del rigore della scienza, in L’artefice, in Tutte le opere, Milano : Mondadori, 1984-85, vol. I, pag. 1253.

La conoscenza infinita (o comunque indefinita) preclude una possibilità, il completamento logico dell’azione storiografica: l’interpretazione. Ancora prima di chiedersi se la storia abbia una sua utilità, occorre che essa porti a una comprensione ulteriore rispetto a una semplice elencazione di eventi.
Un’infinita teoria di particelle di conoscenza non permette di stabilire profondità di campo, possibilità di lettura critica. L’applicazione della principio di Pareto della prevalenza di alcuni fattori è criterio operativo massimo per la formazione di un corpus critico e criticabile, limitato, condivisibile e modificabile.

Per il mantenimento della propria coerenza, questo corpus di conoscenze può e deve soggiacere a un continuo processo di validazione della comunità degli storici. In altre parole, non chiunque può vedere una propria analisi storica entrare nel novero delle conoscenze storiografiche condivise.
Che per qualcuno sia importante un avvenimento del tipo “il 14 maggio 1932 mio nonno cadde da cavallo, procurandosi la frattura di una clavicola” non significa che ciò lo sia per tutti. Se questo qualcuno decidesse di pubblicare un articolo in merito, la comunità degli storici (che in questo caso include il redattore di una rivista) agirebbe per respingere tale nozione come facente parte della “storia”. Considerare eventi come questo porterebbe ad aberrazioni come quella di Funes. Da notare che non sarebbe sensato scrivere i libri di storia, perché non sarebbe possibile ordinare per importanza gli eventi noti e selezionati, e si potrebbero solamente scrivere immense ed inutili enciclopedie.

(continua)