l’effetto del lunedì – 03 – Doppler

E’ piuttosto facile riconoscere se un’ambulanza sta venendo nella nostra direzione, perché il suono della sua sirena è più “alto”; analogamente, quando l’ambulanza si allontana, il suono assume una frequenza minore.
Quando Christian Andreas Doppler, matematico e fisico austriaco, scoprì l’effetto nel 1845, non c’erano ambulanze a motore, ma un treno con una piccola orchestra a bordo fu più che sufficiente come esperimento decisivo: Doppler si mise lungo i binari e verificò la distorsione nel suono prodotto.
La variazione della frequenza si spiega in questo modo: quando la sorgente del suono si avvicina all’ascoltatore, le onde emesse sono più ravvicinate per via dello spostamento della sorgente. Alle orecchie dell’ascoltatore si produce così un suono di maggiore frequenza.
Un’esperienza che può chiarire intuitivamente l’effetto è una nuotata in mare: allontanandoci da riva, incontreremo le onde più ravvicinate l’una all’altra, mentre se vi torniamo la loro frequenza ci apparirà minore.

A soli tre anni di distanza, e soprattutto in maniera Hippolyte Fizeau scoprì indipendentemente lo stesso effetto nelle onde elettromagnetiche nel 1848 (in Francia, l’effetto è a volte chiamato “effetto Doppler-Fizeau”).
La comprensione di questo aspetto dell’effetto, in particolare con riferimento alle onde luminose, ha rivestito un ruolo fondamentale per la comprensione di fenomeni in astronomia.
Lo spettro elettromagnetico (quindi sia all’interno sia fuori lo spettro del visibile) irradiato dai corpi celesti non è continuo, ma presenta dei picchi a certe frequenze, legate agli stati energetici degli elettroni degli elementi chimici che compongono i corpi. Nel momento in cui queste sorgenti si muovono, questi picchi si trovano spostati rispetto alla posizione nella qualce ci si aspetterebbe trovarli se la medesima sorgente fosse ferma.
Dalla misurazione della differenza di posizione si può risalire alla velocità dello spostamento, nello stesso modo in cui, conoscendo la nota prodotta dalla sirena di un’ambulanza ferma, ascoltando la nota prodotta da quella in movimento si potrebbe dedurre la velocità alla quale il veicolo si sta spostando.
Nell’ambito della luce visibile, invece, essendo i colori agli estremi dello spettro il rosso (frequenza minore) e il violetto (frequenza maggiore), l’effetto che normalmente si verifica osservando oggetti celesti è il cosiddetto red shift, “spostamento verso il rosso”, poiché la frequenza misurabile è minore di quella teorica. Da qui si deduce che le stelle si stanno allontanando dal nostro punto di osservazione (vige in questo campo la legge di Hubble).
L’effetto Doppler elettromagnetico è una delle basi della teoria dell’universo in espansione, ma molto più modestamente ha permesso ad esempio di individuare stelle binarie dove in apparenza se ne osservava una con delle anomalie, o misurare la velocità di rotazione di corpi celesti, galassie e ammassi interstellari.

strane navi

Negli anni ’20 del xx secolo un ingegnere tedesco, Anton Flettner, originario dell’Assia, modificò la “Buckau”, una grossa barca a vela, sostituendo i suoi tre alberi con due cilindri rotanti alti circa 16 metri: si tratta della prima applicazione conosciuta dell’effetto Magnus ai fini della navigazione marittima. La nave, che disponeva anche di un motore Diesel per la propulsione in assenza assoluta di vento, era addirittura in grado di muoversi contro vento, proprio per la capacità dei cilindri di sfruttare l’effetto Magnus. Lo schema dà un’idea sintetica di come i cilindri debbano essere fatti girare.
Nel 1926 la nave compì un viaggio nell’Atlantico, dimostrando l’efficacia di questa soluzione; tuttavia, il progetto fu accantonato per via dei rendimenti complessivi, che si dimostrarono inferiori a quelli di analoghe navi a motore.
Oggi, anche a fronte dei sempre più cari combustibili fossili, si ripercorrono strade alternative: la compagnia di navigazione Beluga Shipping, di base a Brema in Germania, dispone già della “Beluga Skysails”, nave portacontainer di 132 metri, che sfrutta la trazione di una vela simile a quella dei parapendio. La Enercon, invece, leader nel settore della produzione di turbine, nel 2008 ha invece varato la “E-Ship”, che manco a dirlo sfrutta l’effetto Magnus.
La nave dispone di controlli automatici che la direzionano nella maniera ottimale rispetto alla provenienza del vento e ovviamente rispetto alla destinazione. Lo scafo della nave, studiato con la collaborazione delle facoltà di ingegneria navale di Amburgo e Kiel, contribuisce alla riduzione dei consumi, che possono attestarsi sino al 40% rispetto a quelli di una nave con propulsione tradizionale.
In presenza di un vento forza 7 è possibile spegnere i motori diesel-elettrici che imprimono la rotazione ai cilindri e sfruttare la spinta “naturale” dei rotori, che permettono di raggiungere una velocità non distante da quella massima. Il principio è sempre lo stesso: l’aria che turbina intorno ad un oggetto in rotazione che presenta al fllusso la propria sezione circolare lo spinge da un lato, quello dove registra la minore resistenza a causa della rotazione.
Le colonne cilindriche fungono quindi da vele, e in aggiunta usano il vento in maniera molto più efficiente, permettendo la navigazione con un angolo di incidenza rispetto al vento sino a 20 gradi, contro i 45 gradi minimi di un’imbarcazione a vela.
Una notevole, seppur non commerciale, applicazione dell’effetto Magnus è stata quella della nave “Alcyone”, realizzata dall’oceanografo francese Jacques Cousteau nel 1985. La Cousteau Society è attualmente alla ricerca di fondi per la costruzione della “Calypso II”, nave oceanografica e scientifica che nelle intenzioni dovrebbe essere dotata di un’enorme turbosail in grado di sospingerla per gli oceani.

la lista del giovedì – 02 – i grattacieli più alti del mondo

Solo quattordicesimo. Superato in altezza da sette cinesi, otto se si considera cinese quello di Taipei. Il più vecchio tra i primi trenta, essendo del ’31. Si tratta dell’Empire State Building, per lungo tempo il più alto edificio del mondo. Tirato su in un annetto, surclassò di una sessantina di metri (l’Empire è alto 381 metri) il Chrysler Building (319 metri), altro grattacielo newyorchese, edificato appena l’anno prima, attualmente trentunesimo nella graduatoria dei più alti edifici a oggi completati nel mondo.
Oggi la classifica vede fresco fresco al primo posto un mastodonte che sorpassa il secondo giusto dell’altezza del Chrysler Building (!!!). Si tratta del Burj Khalifa, colosso di 828 metri, o che dir si voglia 2717 piedi, mentre il secondo più alto grattacielo è proprio il grattacielo di Taipei, che con volontà quasi nazionalistica prende il nome di Taipei 101, che con i suoi 508 metri nel 2004 era stato il primo grattacielo – e non semplice struttura, si badi – a superare il mezzo chilometro dalla base alla punta.
Sulla classificazione dei più alti manufatti costruiti dall’uomo vi sono numerose clausole, condizioni, eccezioni, che fanno variare la “top ten” o la “top 100”; l’edificazione del Burj Khalifa, tuttavia, ha messo a tacere ogni possibile disputa.
A oggi una classifica abbastanza condivisa dei 15 più alti edifici della terra vede queste posizioni:

15. Central Plaza, Hong Kong – 374 metri, 78 piani, in calcestruzzo, costruito nel 1992;

14. Empire State Building, New York (USA) – 381 metri, 102 piani, costruito nel 1931;

13. Shun Hing Square, Shenzhen (Cina) – 384 metri, 69 piani, costruito nel 1996;

12. CITIC Plaza, Guangzhou (Cina) – 390 metri, 80 piani, costruito nel 1996;

11. Two International Finance Center, Hong Kong (Cina) – 412 metri, 88 piani, costruito nel 2003;

10. Jin Mao Building, Shanghai (Cina) – 421 metri, 88 piani, costruito nel 1999;

9. Trump International Hotel & Tower, Chicago (USA) – 423 metri, 98 piani, costruito nel 2009;

8. Willis Tower, Chicago (USA) – 442 metri, 108 piani, costruito nel 1974;

7. Nanjing Greenland Financial Center, Nanjing (Cina) – 450 metri, 66 piani, costruito nel 2010;

5. Petronas Towers (1 e 2), Kuala Lumpur (Malesia) – 452 metri, 88 piani, costruite nel 1998;

4. International Commerce Centre, Hong Kong (Cina) – 484 metri, 108 piani, costruito nel 2010;

3. Shanghai World Financial Center, Shanghai (Cina) – 492 metri, 101 piani, costruito nel 2008;

2. Taipei 101, Taipei (Taiwan) – 508 metri, 101 piani, costruito nel 2004;

1. Burj Khalifa, Dubai (EAU) – 828 metri, 163 piani, costruito nel 2010.

La linea evolutiva degli edifici “fuori taglia” ha come punti fondamentali prima le strutture in acciaio, poi un ritorno del calcestruzzo alla fine degli anni ’90 del xx secolo e infine l’uso di materiali compositi nelle più recenti realizzazioni. Le presenze tra i primi 15 sono:
– 2 in acciaio: la Willis Tower e l’Empire State Building;
– 3 in calcestruzzo: la Trump International Hotel & Tower, la CITIC Plaza e la Central Plaza;
– 9 in materiali compositi (tutti quelli tra il 2° e il 7° posto);
– uno solo, peraltro significativo, in modalità mista: il Burj Khalifa, per parte in calcestruzzo e per parte in acciaio.

Infine, un confronto con la classifica dei più alti edifici nel 2000 mostra l’incredibile accelerazione, avvenuta soprattutto in estremo Oriente, in questo campo. La recente crisi economica, però, ha potentemente sferzato il settore, se è vero che il Burj Khalifa prende il nome dal presidente degli Emirati Arabi Uniti Khalifa bin Zayed Al Nahayan (che per sopramisura è pure emiro di Abu Dhabi).

l’alluminio, un bravo trasformista – 2

(segue)

Sino all’inizio del xx secolo la struttura della materia non fu compresa in modo completo. O meglio, senza sapere che cosa fosse realmente un elemento dal punto di vista fisico, Dmitri Mendeleev tracciò correttamente la dipendenza periodica delle proprietà degli elementi dal loro peso atomico sin dalla fine degli anni ’60 del xix secolo.
Nei periodi precedenti, non era agevole né concettualmente semplice dividere i composti dagli elementi puri. Ciò valeva anche per l’alluminio, del quale già nel 1782 il chimico francese Antoine Lavoisier ne postulò l’esistenza a partire dall’analisi di un suo ossido come l’allume. Un quarto di secolo dopo, nel 1808, Sir Humprey Davy, celebre chimico inglese, gli diede pure il nome che arriva sino a oggi: aluminum, erroneamente interpretato da alcuni come derivante da a-lumen,“senza luce”, e in realtà originato da alum, ossia “sale amaro”.
Sempre Davy, a un solo anno di distanza dal “battesimo” dell’alluminio, lo ricavò in forma pura, agendo con un arco elettrico su di un bagno di ferro fuso e allumina: pur con un’energia elettrica ancora tutta da scoprire (la pila di Volta non aveva ancora compiuto 10 anni), si inizia a tracciare la strada che porterà allo sfruttamento diffuso di questo metallo.
Un altro nume tutelare della scienza elettromagnetica, il danese Hans Christian Oersted, ottenne quantità più rilevanti di questo metallo nel 1825. E si deve a Frederick Wöhler, che passerà alla storia per le sue trattazioni degli sforzi a fatica dei metalli, la produzione di piccole sfere di alluminio, pur non più grandi della capocchia di uno spillo. Il contributo di Wöhler arrivò al determinare il peso specifico dell’alluminio.

Che il fattore dimensionale fosse critico non solo per l’effettiva possibilità di usare il “nuovo” metallo, ma pure per suscitare interesse nei suoi confronti, è dimostrato dai risultati ottenuti dal francese Henry-Etienne Sainte-Claire Deville. Costui, un anno solo dopo Oersted, riuscì a ottenere quantità isolate di alluminio puro della grandezza di palle da biliardo, attirando l’attenzione addirittura di Napoleone III, che lo supportò nelle sue ricerche. Tale era il fascino eserciatato dall’alluminio che dopo l’Exposition universelle di Parigi del 1855, occasione nella quale Sainte-Claire Devill potè mostrare le prime barre di alluminio prodotte sino a quel momento, proprio queste barre furono esposte accanto ai gioielli della Corona.
La scala di attività era ancora troppo modesta, e aumentò in modo notevolissimo quando l’americano Charles Martin Hall, dall’alto dei suoi 23 anni, ideò un metodo elettrolitico per la produzion di alluminio puro. Correva l’anno 1886, e il panorama dello sfruttamento dell’energia elettrica era cambiato: il trasformatore, ad esempio, consentiva il trasporto a distanza dell’energia elettrica, mentre le potenze installate aumentavano in modo sensibile.
Hall fu in grado di scindere gli ossidi dell’alluminio facendo passare una intensa corrente elettrica in una soluzione di criolite e allumina. In Francia, dal canto suo, Paul L. T. Herault ideò un metodo pressoché identico, pur non avvertendo la portata commerciale dell’invenzione. Alla prova dei fatti, il sistema Hall-Herault, che prende il nome da entrambi i suoi ideatori, si mostrò produttivo, economico e di facile gestione ed applicazione industriale.
Nel 1888 il celebre chimico tedesco Karl Joseph Bayer brevettò un nuovo sistema per ottenere l’allumina; il metodo Bayer è punto di partenza del ciclo industriale del prodotto. Che i metodi Hall-Herault e Bayer fossero un’ottima soluzione lo si evince dalla tabella qui vicino, che riporta le quantità di alluminio prodotte dalla fine del xix secolo sino alla fine del xx.

Nel momento in cui si rese facilmente disponibile, la leggerezza unita alla resistenza dell’alluminio lo eressero al metallo non ferroso più largamente impiegato.
A titolo di paragone, il dato del 1999 permette di compiere un paragone tra i 24 milioni di tonnellate di alluminio prodotte e i 14 di rame, i 6 di piombo e le “sole” 200 mila di stagno.
I settori di applicazione dell’alluminio sono moltissimi ed estesissimi: basti dire che l’aeronautica dopo la Seconda guerra mondiale deve buona parte del suo repentino sviluppo all’uso dell’alluminio per la costruzione di ali e fusioliere; anche molti altri mezzi di trasporto utilizzano massiciamente questo metallo. Altro ambito è quello degli imballaggi: le lattine delle bibite (e non solo) sono costituite di alluminio; così lo sono molti serramenti e così parti importanti dei nostri elettrodomestici e di altri utensili presenti nelle cucine; negli ultimi tempi l’alluminio ha addirittura sostituito il rame nella realizzazione di linee elettriche, per via del buon rapporto conduttività/peso+costo.

l’effetto del lunedì – 01 – Magnus (continuazione del martedì)

(segue)

L’articolo The spinning ball spiral, come si accennava, risponde anche agli appassionati di altri sport, presentando una sintetica risposta alla domanda del generico sportivo: “Vedrò mai l’effetto Magnus nel mio sport?”. Ciò, tuttavia, non prima di aver dato qualche riferimento in merito ai precedenti studi compiuti in materia.

Tra i precursori di Magnus vi sono nomi eccelsi: sarebbe stato lo stesso sir Isaac Newton a descrivere per primo questo effetto nel 1672, osservando, manco a dirlo, alcuni giocatori di tennis. Una settantina di anni dopo l’ingegnere del genio inglese Benjamin Robins avrebbe ricondotto le deviazioni di alcune traiettorie di proiettili all’effetto Magnus. A 180 anni dall’intuizione di Newton, nel 1852, sarebbe stato un chimico tedesco, Heinrich Gustav Magnus (1802-1870), a fornire dati sperimentali sul fenomeno tali da farlo associare al proprio nome. Clanet e colleghi non dimenticano di citare un altro nume tutelare degli studi di fluidodinamica e aeronautica: Gustave Eiffel. Non si ricorda di certo Gustave Eiffel per i propri studi in questo campo, eppure questa disciplina fu – ed è – fondamentale per la progettazione (iniziata nel 1863) di una enorme macchina qual è la torre che da lui prende il nome, sottoposta all’azione di forti venti, tanto più sferzanti quanto più ci si sposta verso la sommità della costruzione.

Ma veniamo al punto: verso il termine dell’articolo si riporta una tabella che dà un’idea dei numeri in gioco non solo nel caso del calcio, ma anche nel caso di alcuni altri sport. La seconda colonna della tabella mostra la velocità iniziale, ossia quella al momento del colpo, espressa in metri al secondo (10 metri al secondo equivalgono a 36 km/h); la terza riporta la lunghezza in metri del campo di gioco o, come nel caso del baseball, la distanza tra lanciatore e battitore; la quarta colonna è una misura legata alla densità della palla, ed esprime grosso modo che distanza occorre per vedere il pieno attuarsi dell’effetto Magnus, con il verificarsi di effetti imprevedibili; infine, la quinta colonna esprime, sulla base di ulteriori condizioni specifiche per ciascuno sport, a che distanza si può vedere una prima curvatura rispetto alla traiettoria rettilinea che la palla o il pallone dovrebbe seguire.

La tabella mostra dei casi estremi: quello del tennis tavolo, nel quale la particolare conformazione della pallina permette di tracciare curve che si manifestano a un solo metro di distanza dal punto di impatto, e quelli della pallacanestro e della pallamano, per i quali l’effetto Magnus, vuoi per la modesta velocità in gioco (in particolare per la pallacanestro), vuoi per il peso e la densità del pallone, non si verifica per alcuna distanza.
Per gli altri sport la curvatura della traiettoria inizia a manifestarsi a una distanza di 5-7 metri dal punto dell’impatto: i conti tornano rispetto al tiro di Roberto Carlos.
Similmente, nel caso della pallavolo è esperienza comune vedere battute al salto che si abbassano rispetto alla traiettoria prevedibile già in prossimità della rete. L’effetto Magnus deriva dalla rotazione (con buona pace di Caressa) impressa dalla mano dell’atleta, che “lavora” la palla dal basso verso l’alto e poi avanti, imprimendo uno spin tale per cui, chi guarda un battitore dalla sua destra vedrà la palla ruotare in senso orario.
Rispetto alla tabella compilata dagli autori dell’articolo, si può aggiungere che la velocità iniziale della palla può essere superiore ai 20 metri al secondo ipotizzati nella seconda colonna, ed essendo l’effetto Magnus beneficamente influenzato dalla velocità iniziale, si ha che esso si può verificare con maggiore facilità.

Quando manca l’effetto Magnus, o addirittura la rotazione è contraria a quella normalmente impressa, la traiettoria…

In qualche caso l’effetto Magnus non ha modo di verificarsi, vista la distanza percorsa dal pallone abbondantemente al di sotto dei 5 metri (si può forse parlare di effetto Marshall?):

Per chi vuole saperne di più, nell’articolo Christophe Clanet dice che tutte le comunicazioni (si suppone anche richieste di informazioni e chiarimenti) dovrebbero essere indirizzate a lui: clanet@ladhyx.polytechnique.fr… altrimenti ci sono i commenti.

l’effetto del lunedì – 01 – Magnus

Molti ricorderanno il famoso “tiro delle tre dita” eseguito dal calciatore brasiliano Roberto Carlos nel corso del Torneo di Francia del 1997, al quale parteciparono anche Inghilterra e Italia. Nella partita contro la Francia il terzino di spinta (neanche nel ’97 si usavano più questi termini, ma poco importa) cacciò una fiondata impressionante nel sacco difeso dal portiere francese Barthez (l’incolpevole Barthez, certo). Le riprese dal basso rendono giustizia al tiro:

Il tiro, già, noto, torna ora alla ribalta come ottima applicazione dell’effetto Magnus, che si riscontra nel caso di un solido rotante in un mezzo di densità comparabile, ossia i cui pesi specifici non differiscono di molto, come ad esempio un pallone che si muove nell’aria.
The spinning ball spiral è un articolo apparso sul numero di settembre 2010 del “New journal of physics”, a firma di Guillaume Dupeux, Anne Le Goff, David Quéré e Christophe Clanet, dell’Ecole Polytechnique parigina. Al termine dell’articolo si cita esplicitamente il tiro di Carlos come esemplificativo dell’effetto, anche se contestualmente si riporta una tabella che chiarisce gli ambiti nei quali l’effetto Magnus si può verificare anche in altri sport.
L’articolo è stato prontamente ripreso dalla stampa, sportiva e non, forse perché piace ricondurre a un sistema coerente di conoscenza ciò che a prima vista è dettato da un comportamento casuale. Purtroppo, però, l’articolo è sufficientemente tecnico da costituire uno scoglio consistente, per quanto i più volenterosi tra i giornalisti si siano messi di buon buzzo per diffonderne una vulgata. Eccone un risultato:

“La stampa” di Torino, nell’articolo di Andrea Malaguti, parla di “«Equazione del brasiliano», una formula complicata piena di lambda e di p greco”. Siamo alle solite: c’è uno scienziato pazzo che, chiuso nel proprio laboratorio, fa esperimenti astrusi, e qualche rarissima volta i risultati derivanti toccano anche il nostro mondo.
Magari vale la pena parlare di questa formula, e del concetto che sta alle spalle. In estrema sintesi, l’effetto Magnus afferma che un corpo rotante in un mezzo – il mezzo può essere l’aria, l’acqua, la sabbia, l’omogeneizzato o il barolo, basta che il corpo sia più o meno denso quanto il mezzo – tende a trascinare con sé una certa parte del mezzo che gli sta accanto. Ciò capita solamente dove il mezzo e il corpo hanno verso concorde di movimento. La figura qui sotto dovrebbe spiegare bene il concetto (cliccandovi sopra si ingrandisce):

Il pallone gira in senso antiorario, e si sposta verso sinistra, quindi aderisce superficialmente con gli strati d’aria che stanno nella parte inferiore della figura; con quelli, cioè, che si muovono “insieme” con la superficie del pallone. La conseguenza di questo comportamento è meno immediata, ma fondamentale per il risultato finale: si origina una depressione proprio in quella zona, in basso nella figura, e il pallone, analogamente a quanto accade all’ala di un aereo, si sposta proprio verso la depressione; se è più comodo pensare che nella parte superiore della figura vi sia una maggior pressione il risultato è il medesimo. Come ovvio, nel nostro caso si sposta verso il basso, e la freccia rossa indica la direzione della forza risultante.
Il signor Caressa compie un errore dicendo che l’effetto Magnus si ha quando il pallone non ha rotazione; è l’esatto contrario: l’effetto ha luogo proprio quando la rotazione è in un certo intervallo di valori, così come la velocità, così come un insieme di parametri.
In altri termini, l’effetto Magnus avviene solo quando un insieme di condizioni è rispettato. Non tutti i tiri sortiscono l’effetto di quello di Carlos (i portieri ringraziano). Occorre una certa velocità minima, occorre che la rotazione impressa sia non troppo piccola e non eccessiva, occorre che il pallone abbia certe caratteristiche (molti sostengono che i palloni odierni descrivano traiettoria molto più imprevedibili), e occorre che la distanza dalla porta sia oltre un certo valore.

A questo punto i praticanti degli altri sport potrebbero chiedere “Esiste l’effetto Magnus nel mio sport?”. L’articolo dà una risposta sintetica ma esaustiva…

(continua)

l’alluminio, un bravo trasformista – 1

Tra i metalli, all’alluminio va il ruolo del miglior trasformista. Nei millenni è stato in grado di recitare i ruoli più disparati, arrivando solamente nella maturità (o nella tarda vecchiaia, se si considera la sua “vita” sino a oggi) a mostrare il proprio vero volto, lucido e brillante. Quando apparve come tale, pur essendo diffusissimo, fu considerato alla stregua dei metalli preziosi, dal cui novero uscì prontamente quando fu trovata la maniera di produrlo in modo sufficientemente conveniente.
Non che magari non gli sarebbe piaciuto mostrarsi prima, ma è che proprio non ce la faceva. Senza saperlo, lo utilizzavano già Sumeri e Babilonesi tremila anni orsono, sotto forma di silicati idrati (cioè delle sabbie argillose), con i quali realizzavano stoviglie e oggetti di uso quotidiano. A causa di questo utilizzo sarà in seguito chiamato il “metallo dell’argilla”. Similmente, gli Egizi conciavano e tingevano pelli e tessuti con l’allume, un solfato del nostro trasformista.
Parrebbe che un ignoto orafo avesse presentato all’imperatore Tiberio (42 a.C. – 37 d.C.) il metallo nella sua forma pura. Ne accenna Plinio il Vecchio nella monumentale (è eipiteto fisso per quest’opera) Historia Naturalis Plinio il Vecchio menziona un metallo argenteo le cui caratteristiche suonano assai familiari:

“Un giorno a Roma un orafo presentò all’Imperatore Tiberio un piatto fatto di un nuovo metallo. Questo piatto era molto leggero e brillava come l’Argento. L’orafo disse all’Imperatore che aveva ricavato questo metallo dall’argilla e gli assicurò che soltanto egli e gli Dei sapevano come ottenere tale straordinario risultato. L’Imperatore si mostrò subito interessato, e da esperto amministratore quale era capì immediatamente che tutti i suoi tesori d’Oro e d’Argento si sarebbero svalutati completamente, se il popolo avesse iniziato a produrre il nuovo metallo traendolo dalla volgare argilla.
Perciò, invece di tributare all’orafo gli onori che questi si era aspettato, lo fece decapitare.”

Che prendere simili decisioni porti bene, se si considera che Tiberio, pur settantasettenne, fu soffocato nel sonno, parrebbe non essere così certo; in realtà, visto lo scarso rigore che spesso Plinio mostra, non si può nemmeno essere sicuri che il metallo mostratogli fosse realmente alluminio. Ma i trasformisti non lasciano tracce dei loro vestimenti.

Nel frattempo, l’alluminio era stato sotto gli occhi di tutti per lunghissimo tempo, sotto forma di ossido (Al2O3), parola che suscita una sensazione di opacità, che scompare se si pensa che due varianti di questo ossido prendono il nome di rubino e zaffiro, varietà di un medesimo minerale, il corindone (che forse qualcuno ricorda per occupare il nono scalino della scala di Mohs, dopo il topazio e prima del diamante). Il corindone è minerale cosiddetto allocromatico, ossia che prende un’ampia gamma di colori, secondo le impurità presenti nella sua struttura cristallina. Il rubino è rosso per via della presenza di cromo; il meno prezioso zaffiro, invece, deve il suo blu a piccole percentuali di ferro e titanio.

Il problema fondamentale nell’ottenimento dell’alluminio nella sua forma metallica pura è la grande forza del legame del suo ossido. Nel caso di altri ossidi, come quelli del ferro, si estrae il metallo riducendolo con carbonio (ad esempio riscaldandolo con un fuoco di carbone), in modo da “strappargli” gli atomi di ossigeno; nel caso dell’alluminio, elemento particolarmente reattivo, questo non è possibile, perché esso ha un potere riducente maggiore di quello del carbonio. In altre parole, agli atomi di carbonio piace di meno stare con quelli di ferro rispetto a quelli di carbonio, ma i loro preferiti restano quelli di alluminio.
Sino al xix secolo non vi fu nessun forno in grado di sciogliere questo legame, poiché non poteva esistere alcuna tecnica legata al calore capace di sovvertire quelle “preferenze”. Si doveva attendere la nuova energia, quella elettrica, per liberare il trasformista dai suoi costumi.

(continua)

la lista del giovedì – 01 – cose che non puoi fare con l’iPad ma con un quotidiano sì

Gran bell’oggetto, l’iPad. E’ il futuro, oggi. Tra qualche anno gli edicolanti dovranno cercarsi un altro mestiere, e molti librai pure. Leggerezza, perfetta visualizzazione, possibilità di prendere appunti e note in modo veloce e organizzato allo stesso tempo, rimozione di enormi quantità di carta da case e uffici. L’iPad ha un grande futuro davanti a sé. Anche i radical chic tra poco cederanno.

Senza voler sembrare retrogradi, però, si vogliono segnalare alcune attività che non si possono compiere agevolmente con un iPad, ma con un quotidiano sì:

1. riciclarlo (va bene, si riciclerà pure in qualche modo, ma non c’è confronto);
2. sedersi su di una panchina e farci i buchi per spiare qualcuno senza essere visti;
3. coprirci i mobili o il parquet quando si tinteggia;
4. ritagliarne una parte e appenderla con una puntina per poi dimenticarsi di averlo fatto;
5. arrotolarlo e cacciare zanzare, mosche, pappataci e altri ditteri;
6. impiegarlo come riempitivo in cavità di vario genere;
7. pulire i vetri inumidendolo;
8. lasciarlo in treno dopo aver letto le cose che più ci interessano;
9. metterci in mezzo una rivista che si vuole nascondere;
10. darne parte a una persona che vuole leggere altro da quello che leggiamo noi;
11. (se si è un muratore) farci un cappello;
12 (bonus). metterlo sotto la maglia d’estate quando si è in giro in bicicletta e si approccia una discesa (per la verità, se si dispone di un numero adeguato di iPad l’operazione è fattibile anche con il gingillo della Apple; non ne si segnalano i lati negativi).

Relativamente al punto 3., è notorio che l’articolo più interessante di un giornale è quello di un numero di un certo giorno del mese prima, che si scorge mentre si spennella una parete. Ci si può trovare immersi nella lettura mentre la nostra pennellessa sgocciola su di una porzione non protetta della nostra stanza.

(continua)

generazione di suoni

In fondo ce lo saremmo dovuti aspettare, prima o poi. E dai Giapponesi, certo.
Una delle caratteristiche principali della Toyota Prius, celebre tanto per essere la prima automobile ibrida di larga diffusione quanto per la propria linea non certo accattivante (ma utile per abbassarne quanto possibile il coefficiente aerodinamico), è la silenziosità a basse velocità, quando è spinta dal solo motore elettrico. La si direbbe una peculiarità positiva, ma qualcuno non l’ha pensata così, ritenendo che l’assenza di rumore fosse addirittura pericolosa per quegli improvvidi pedoni, che ignari del sopraggiungere di un veicolo alle loro spalle o da un angolo cieco, si trovassero a camminare in mezzo a una strada o ad attraversare un incrocio senza curarsi del passaggio di autovetture.
Ora, se il materno mantra “fai attenzione quando attraversi la strada” è scandito con devozione dalle madri italiane ed europee, ciascuna nella lingua che più le compete, c’è da non avere dubbio che la litania sia recitata con anche maggior vigore da quelle giapponesi, che devono abituare i pargoli a un ambiente con una densità automobilistica pari se non maggiore di quella occidentale.
Ci si può così chiedere a chi possa servire il generatore di suono (sì, generatore-di-suono), altrimenti definito come “Approching Vehicle Audible System”, presto disponibile a pagamento (120 euro circa) sulla vettura nipponica. La domanda passa però in secondo piano quando si osserva il seguente filmato, e si ascolta il rumore prodotto dal generatore (è anche interessante vedere il comportamento di quella che si può supporre essere la ragazza media giapponese, la cui madre – si evince – non ha mai catechizzato a dovere la pargola sui pericoli della strada):

Che razza di suono è? Chi mai può desiderare di avere un’automobile che produce quel suono? Si dirà, lo stesso individuo che cammina in mezzo alla strada. Forse. La cosa che vi si avvicina di più è il rumore dei rotori volanti della serie “UFO”, che nel 1969 immaginava il mondo e i rapporti con gli extraterrestri nel 1980 (non sarebbe convenuto dare un po’ più di vantaggio o si dovevano giustificare pantaloni a zampa e pettinature?). Li si sente bene attorno a 1’30” del seguente filmato:

Come le voci dei generatori satellitari, un dispositivo come il generatore di suono dovrebbe almeno consentire una scelta tra alcuni rumori. Ecco una possibile lista:
– marcia di Radetzky;
– carro armato Leopard;
– vuvuzela;
– kazoo;
– Ape Car;
– Diego Abatantuono che imita l’Ape Car;
– Citröen 2CV;
– Prinz 4;
– Husqvarna TE510;
– la propria voce registrata, con cose del tipo “Méééééééééééééé (cambio) mèèèèèèèèèèèèè…”