cacciatori di taglie conformate, ovvero curriculì curriculà – 3

Mai visto prima con la cravatta
Philippe Starck ha avuto il suo reality show (abbreviato in “reality” in italiano; la cosa mi ha sempre fatto un po’ sorridere): si tratta di “Design for life”, sparato nell’etere da BBC2 e in Italia da Rai 5, con il sottotitolo “sognando Philippe Starck” che fa tanto anni ’80. Non è il caso qui di commentare il programma, ch soffre di tempi morti non eliminabili nemmeno dal più ardito dei montaggi, alternati a momenti più vivaci principalemente dovuti alla verve del designer parigino.
Ha qualche utilità per il discorso che voglio portare avanti, piuttosto, citare a braccio una considerazione dell’autore del più citato esempio di cattivo risultato di design, nella fattispecie lo spremiagrumi Alessi, che pur avvalendosi dell’effetto Coandă non riesce a evitare che i grumi e soprattutto i semi delle arance cadano nel bicchiere che contiene la spremuta.
Di fronte a idee progettuali abbastanza sciatte portategli dai concorrenti del reality show, quasi tentato dal rispedirli tutti a casa, in una delle prime puntate Starck evidenzia l’errore di fondo compiuto dagli aspiranti designer: lavorare quasi in gruppo anziché da soli. Pur ammettendo la necessità di un confronto lavorativo, Starck perora la causa del lavorare da soli, che secondo lui è il modo per avere idee e concentrarsi realmente sui progetti.
Il cortocircuito è stato brevissimo: qualche mese fa, avendo dovuto aggiornare il mio curriculum per la partecipazione a un seminario, dovendo scrivere nel campo “Capacità e competenze relazionali” (mi spiegherà un giorno qualcuno che cosa sia una “competenza relazionale”), ho ritenuto opportuno segnalare che “ottengo i migliori risultati analizzando i problemi e ipotizzando soluzioni in autonomia”. Bravo. Grazie.
Ma il cerchio si è definitivamente chiuso quando ho trovato la madre di tutti i curriculum vitae (è vero, è di un trentenne italiano; se mai leggesse queste righe, non me ne voglia, non sarà l’unico, ne sono certo):
I performed different and intense consulting experiences, in national and international contexts, which make me develop passion and professionally spendable skills in automotive sector. I’m able to achieve and manage my Clients, to plan and manage activities, to define solutions with poor data, to coordinate and to motivate my team, to analyze and summarize data, to perform training sessions in classrooms and on field, to design training courses, and choose the most appropriate resources for project activities. I normally work in contexts that require highest flexibility and fast problem solving skills use, in order to reach company goals.
I strongly believe in the concept that efficiency and success of an organization are determined by resources working inside it.
Piccolo rilievo ortografico, anzitutto: le uniche maiuscole del passo sono quelle del pronome personale “I” e l’iniziale di “client”. In altre parole, la santificazione dell’Io e della Committenza. Il resto del mondo non esiste, o, come diceva Guzzanti, questa non è la sede. Manco la “company” si merita la maiuscola.
A questo punto mi salta in mente un’altra perla di Starck (non credo che lo citerò mai più in vita mia, se ne bei finché può), che nello show elimina dal novero dei pretendenti un giovane designer perché troppo prono a seguire le indicazioni del maestro su come svolgere il compito assegnato, anziché considerarle come un semplice spunto da elaborare creativamente. Forse questa scelta vale più nel campo del design o in generale in quelli dove l’iniziativa personale, quella cosa che si chiama “proattività” (la tratto sempre con le virgolette, non so perché) e la fantasia hanno un peso preponderante. Quest’ultima, si badi, non intesa come il libero fluire del pensiero staccato dalle vicende terrene, ma l’originale interpretazione o reinterpretazione di canoni, nozioni, concetti, strutture, relazioni, abbinamenti, scelte predecenti, insomma, quelle cose lì.
Lo “Yes man” ha un sensore audio che lo attiva
Oggigiorno, chi vuole una persona che “trovi soluzioni in presenza di dati scarsi” (se non in ambito statistico e in presenza di prove distruttive)? Il nodo di Gordio, oggi, è la facile disponibilità di moli quasi ingestibili di informazioni, e la spada di Alessandro potrebbero essere proprio la fantasia, la capacità di intravedere dei fil rouge, la scommessa su di un elemento nuovo. Niente di tutto ciò appare in quelle righe. Se chi assume vuole mantenere la propria posizione privilegiata senza rischio, assumendo degli “yes men”, qui ce n’è uno; diversamente, il “successo di un’organizzazione” sarà dato da altre “risorse che lavorano al suo interno”.

cacciatori di taglie conformate, ovvero curriculì curriculà – 2

Secondo Antefatto: si diceva, Power Point (o PowerPoint; nel dubbio, salvo che nei titoli, vi si farà riferimento come “PP”). Su un numero di “Wired”  (ovviamente quello americano) di una decina di anni fa apparve un articolo a firma di Edward R. Tufte, dal titolo sufficientemente chiaro: PowerPoint Is Evil. L’articolo riprende considerazioni che lo stesso Tufte svolse nel piccolo saggio The Cognitive Style of PowerPoint : Pitching Our Corrupts Within.
Perché Tufte, professore emerito di scienze politiche e statistica all’università di Yale, esperto di infografica, oltre che docente di design e scultore, se la prenderebbe tanto contro un placidone di programma quale PP?
Le ragioni sono molte.
PP, dice Tufte, impone il punto di vista dell’oratore, in modo quasi militaresco, e non è forse un caso che si chiamino bullets i simboli all’inizio di una riga di un elenco “puntato e numerato”. La presentazione è assertiva, e non dialettica. La verità in tasca contro l’apertura alla discussione. Ciò è condivisibile, ma facilita i giochi quando chi presenta è il consulente e chi ascolta è il cliente: meglio non creare dubbi; il dubbio è l’anticamera dell’ulteriore richiesta di informazioni. A meno che non si sia particolarmente capaci a sostenere critiche, sino al punto di vederle come un punto importante del processo. A quel punto si potrebbe pure optare per una visualizzazione alternativa, tra le molte proposte qui (vedi anche infra).
Ancora: secondo il professor Tufte, la gerarchizzazione dei contenuti in PP li incasella in schemi rigidi, che per definizione stentano a rappresentare in modo corretto la realtà. In una sua stupefacente analisi, Tufte arriva a sostenere – ma attenzione, la commissione della NASA che svolse un lavoro parallelo arrivò alle medesime conclusioni – che una delle principali cause del disastro dello Space Columbia del 2003 fu la più diffusa modalità di rappresentazione delle informazioni tecniche (con particolare riferimento ad alcuni problemi verificatisi in un lancio precedente, che furono la causa fisica ultima dell’incidente) adottata dai tecnici NASA: manco a dirlo, PP.
Ok, molto sta a come lo si usa (parliamo sempre di PP; verrebbe da chiamarlo Pierpaolo), ma anche nella più innocente delle presentazioni possiamo essere tentati di utilizzare uno dei golosi temi grafici che Pierpaolo (pardon, PP) propone: sono belli, colorati, con i titoli ben formattati che manco in un giorno riusciremmo a ottenere; soprattutto, però, golosità delle golosità, potremmo essere tentati di utilizzare uno dei modelli che Pierpaolo ci mette a disposizione, come “Rapporto stato progetto”. Inspirate bene, guardatevi attorno tronfi: siete a metà dell’opera.
“Rapporto stato progetto”, “rapporto stato progetto”, “rapporto stato progetto”, ripetete, amleticamente socchiudendo le dita, sentendo la consistenza di questo titolo che dal palato sale, grazie alle proprie virtù appositive, ai lobi della vostra virtù intellettiva: siete dei manager, cazzo.
Ci sono pure i titoli delle slide pronti: “Panoramica progetto” (per iniziare con il piede giusto), “stato corrente” (siamo assertivi), “problemi e soluzioni” (mica può filare tutto liscio), “sequenza temporale” (mirabilia! Con scelta possibile tra tra tipi diversi di rappresentazione), “guardare avanti” (e che, vi guardate indietro ormai? Li avete in pugno, quei bastardi), “Dipendenze e risorse” (ovvio, mica potete fare tutto voi, qualcuno dovrà pur combatterla questa sporca guerra! Ah!), “appendice” (come “appendice”? Già finito? Speravate in un finale migliore, ma tant’è).
A periodic Table of Visualization Methods
Poco importa che un paio d’anni fa si scopra che Pierpaolo (chiedo ancora venia: PP) abbia reso improduttiva un’intera classe di ufficiali americani, che passano più tempo a preparare slide che a dedicarsi alle loro occupazioni guerresche (ok, questo Pierpaolo potrebbe avere qualche risvolto positivo). Poco importa che di modi per esprimere su carta (fisica o informatica) le vostre idee ve ne siano tanti, al punto che qualcuno si è preso la briga di incasellarli in una tavola, che per inciso acquista in questo modo proprietà di meta-visualizzazione mica da ridere. Con queste presentazioni stile “Quattro salti in padella” avete la migliore simulazione di un filo logico. Quanto basta per convolgere il vostro uditorio per tre quarti d’ora, forse più se sono obbligati ad ascoltarvi. Vi vogliono professore? Sarete il loro Umberto Eco. Vi vogliono manager? Sarete il loro… perché non me ne viene in mente uno? Vi vogliono scienziato? Sarete la loro Rita Levi Montalcini. Vi vogliono designer? Sarete il loro Philippe Starck. Già, Philippe Starck.

cacciatori di taglie conformate, ovvero curriculì curriculà – 1

Primo Antefatto: un tempo lontano tenevo tenevo in giro per l’Italia piccoli seminari sulla redazione del curriculum vitae, a studenti degli ultimi anni della carriera universitaria. Le basilari raccomandazioni sono riportate qui di seguito.
  1. Riempite eventuali buchi temporali nelle vostre attività: non c’è nulla di peggio che sapere che una persona è stata a far nulla per, ad esempio, sei mesi. Dite, alla peggio, che avete fatto un giro attorno al mondo, ma per il sistema di pensiero capitalistico occidentale, ove il termine è adoperato nella sua accezione più neutra, sta male dire che non si è fatta una beata mazza per un qualsivoglia periodo. D’accordo, parto con un punto in meno. Tuttavia.
  2. Non seguite il curriculum europeo: è standardizzato, vi riduce a un ammasso di informazioni conformate, non vi permette di dimostrare alcunché. Dicevo questo presentendo che negli anni – questi seminari avevano luogo attorno agli anni 2003-2004 – sarei stato smentito da una sempre maggiore diffusione del modello di riferimento; la mia idea era di passare il messaggio che conformarsi alle aspettative per parte poteva essere una buona scelta, ma poteva avere risvolti negativi. In altre parole, vestirsi da giullare di corte al colloquio per un’assunzione vuole per certo distinguersi in mezzo alla messe di incravattati e intailleurate (fortunatamente non c’è il correttore automatico, diversamente avrebbe urlato), ma abbassa di molto le vostre probabilità di diventare associato in uno studio di avvocati.
  3. Mentite. Adelante Pedro, con juicio; senza eccessi. Siccome molti dei miei uditori erano sull’orlo di un meritato sonno, giocavo a fare la perifrasi delle classiche autovalutazioni delle conoscenze informatiche citate in un curriculum: “conoscenza molto buona” per Word significa che uno ci sta facendo la tesi, per Excel che avete provato a calcolare la rata di un mutuo, “conoscenza buona” per Access vuol dire che sapete che il programma serve a gestire gli elenchi, e per Power Point significa che “massì, è PowerPoint, lo imparo in una sera”.
Quei seminari, per la fortuna dell’uditorio, sono terminati da un pezzo, e ho ripreso in mano il mio, di curriculum, solo quando, qualche anno fa, ne ho avuto bisogno per via della partecipazione a gare o affidamenti di un certo rilievo. La richiesta era terribile: il curriculum doveva essere nell’odiato formato europeo. Ora, io non ho nulla contro l’Europa, e posso dire di avere avuto vita facile, per quanto lunga, nel completare la compilazione. Si chiama pure “Europass“, sa di scatolo che si compra e magari serve per far alzare i passaggi a livello. Ma torniamo a Power Point.

(continua)

vapore, elettricità, sveglie e traffico

La macchina a vapore di Jonathan Hornblower

Che la tecnologia sia plasmata dall’uso che le persone ne fanno è cosa condivisa, e tra gli altri bene ha descritto queste dinamiche Wiebe Bijker, nel suo La bicicletta e altre invenzioni, dove spiega come forma, uso e destinazione di oggetti tecnologici comuni quali la bicicletta, la bachelite e la lampadina non siano solo stati determinati dalla produzione o dalle loro caratteristiche materiali e strutturali, ma molto da come sono stati recepiti e plasmati dai loro utilizzatori finali. Qualche altro post potrà indagare in questa direzione.
Questa operazione plastica va a braccetto con l’introduzione di nuove tecnologie, specie quando queste riguardano le fonti di energia. Così, quando è stata perfezionata la tecnologia della macchina a vapore, nell’ultimo quarto del secolo xviii, in modo quasi immediato, sebbene il tempo di questo tipo di reazione abbia subito variazioni considerevoli nel corso degli ultimi tre secoli, la tecnologia è stata applicata, o almeno si è provato a farlo, a una gran varietà di campi: pompe idrauliche (l’ambito di nascita e sviluppo della tecnologia), opifici, battelli, carri su rotaie (altrimenti noti come treni), carri a corsa libera (da cui le automobili), sino alle macchine volanti (il dirigibile di Giffard del 1852). Ovunque ci fosse bisogno di energia, a sostituzione di altre fonti come quella idraulica, o ex novo, si provò l’installazione di una macchina a vapore. In qualche caso l’uso fu continuato, in altri fu abbandonato.
Un secolo dopo avvenne il medesimo fenomeno con l’avvento dell’elettricità, con le dovute differenze: risultò tecnicamente impossibile far viaggiare una nave o una macchina volante a corrente elettrica per l’impossibilità di installarvi a bordo un generatore di corrente adeguatamente dimensionato, ma le automobili, le macchine operatrici e i treni elettrici (non i trenini da gioco, ma le elettromotrici) furono ampiamente, e quasi sempre con successo, sperimentati. A queste applicazioni si aggiungevano quelle legate all’illuminazione, al riscaldamento e ad altri usi nei quali l’effetto Joule era volutamente favorito. Anche qui, le automobili elettriche, a causa anche (ma non solo) dell’uso tipico che si faceva delle autovetture, diventarono un fiume carsico che solo negli ultimi anni è tornato alla superficie.
A distanza di cinquant’anni circa una nuova fonte: l’energia nucleare. In questo caso, un infernale percorso lastricato di buone intenzioni. Basti comunque dire che nel corso degli anni Cinquanta del xx secolo la rivista “Popular Mechanics” titolò svariate volte di come l’automobile nucleare fosse di imminente introduzione commerciale.
Avvicinandoci ai nostri giorni, non è tanto l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili a segnare il mainstream. Motori a scoppio per applicazioni veicolari e motori (o macchine) elettrici per le applicazioni fisse sono la regola, e lo saranno ancora per almeno un decennio, sino all’assottigliamento definitivo delle risorse fossili; è invece in mutazione la gestione dell’energia che serve per la trasmissione dell’informazione.
Prima dell’informatica, si ebbe la stagione dell’elettronica, con le valvole prima, e i transistor poi, e in particolar modo il secondo è stato applicato a una molteplicità ancora più vasta di oggetti, arrivando alle scarpe, ai portachiavi e agli impianti chirurgici come il pace-maker.
Da una decina d’anni, invece, si assiste al processo per il quale nessun oggetto tecnologico o essere biologico si può dire salvo a lungo termine dall’installazione di un microprocessore.
La riflessione che si vuole portare è semplice: si sicordi che l’ultimo processo descritto è in pieno corso, e l’evoluzione, ad esempio, dell’Internet delle Cose è tutta da giocarsi. Esiste la (radio)sveglia che, ottenendo un insieme di informazioni provenienti da una centrale di gestione del traffico automobilistico, si prende la briga di anticipare o posporre il momento del risveglio del proprio possessore, consentendogli comunque di arrivare in orario in ufficio.
Sottostante al corretto funzionamento del dispositivo sta l’ipotesi ancor più algoritmica della costanza del tempo impiegato dalla persona per lavarsi, vestirsi, fare colazione, prendere le proprie cose e uscire di casa. E se non volessi farmi la doccia? Se mi si rompesse la stringa della scarpa come a Fantozzi? Se volessi mangiare molto di più? Se proprio sull’uscio mi si parasse dinanzi la prospettiva di una congiunzione carnale? Il ritardo sarebbe certo, e responsabile ne sarebbe la sveglia.

Svegliarino monastico (tarsia su legno, sec. xv)

Solo l’uso reale e diffuso di questi oggetti tecnologici ne segnerà lo sviluppo; solo dopo molti ritardi al lavoro scopriremo se alla sveglia saranno state incluse funzionalità quali l’analisi del tasso di testosterone o progesterone, quella dell’odore ascellare, delle caratteristiche funzionali dei vestiti predisposti per la giornata, della glicemia e della serotonina del soggetto da svegliare. Oppure, se il principio alla base del funzionamento dello svegliarino dei monaci benedettini continuerà a valere per l’inizio delle nostre giornate.

le compagnie aeree e l’identità europea

Ponete il caso di acquistare un biglietto d’aereo, diciamo della Lufthansa, per una tratta europea. Non è importante se ci dovete andare per lavoro o piacere, alla compagnia e all’aeromobile non importa. Ponete poi che il giorno prima del volo sapete di aver vinto alla lotteria di Tavagnasco due bottiglie di bonarda, ritirabili solamente da voi il giorno del vostro volo. Per levarvi dagli impicci, vostro cugino vi dice: “Cambia intestatario del biglietto, ci vado io”, mostrando così grande disponibilità nel caso di viaggio per lavoro, e grande opportunismo nel caso di viaggio di piacere.
Mentre Ryanair mostra in modo chiaro sin dalle procedure di prenotazione i costi per il cambio di intestatario del biglietto, altre compagnie meno low cost, quale ad esempio Lufthansa, suggerisce addirittura la riemissione del titolo. Quindi, è necessario acquistare nuovamente il biglietto, pur sapendo che se l’aereo è al completo, poiché il vostro biglietto non è stato annullato, vostro cugino potrebbe rimanere a terra. Da un lato costoso, dall’altro cervellotico.
Ora, poiché né chi scrive né voi né i vostri cugini (e i parenti fino al settimo grado) farebbero mai qualcosa di non consentito dalle leggi in vigore, ciò che segue è descrizione di ipotetiche azioni che chiunque salvo i summenzionati potrebbe compiere.
Allo stato attuale si può prendere un aereo per la Germania, effettuando preventivamente il web check-in, presentandosi quindi direttamente al varco security (quello dove avviene il controllo radiogeno della persona e delle cose che potra con sé) senza dover mostrare codice di prenotazione e soprattutto carta d’identità (la patente non basta per voli intraeuropei) al banco check-in.
Al varco security l’unica richiesta è quella del boarding pass, ossia della carta d’imbarco, per la quale possesso vale titolo. Chi la reca con sé, in altre parole, ha buon titolo a utilizzarla. Dunque, chiunque. L’ultimo passaggio è quello del gate, dove non è più prassi chiedere il documento d’identità, e in alcuni aeroporti tedeschi l’operatore, che vi lascia solo il piccolo talloncino dove vi è l’indicazione del posto a sedere, strappandolo dalla matrice, è sostituito da un lettore ottico di codici QR. Così, chi sale sull’aereo può essere una qualsiasi persona diversa da quella per la quale il biglietto è stato emesso.

Si immagini un latitante che debba volare, ma che per ovvi motivi non amerebbe comprare un biglietto a proprio nome, né mostrare documenti falsi a rischio di essere scoperto. Volare con Lufthansa gli renderebbe la vita facile. Vero è che gli aeroporti sono ormai zeppi di sistemi di riconoscimento biometrico, che non si fanno sfuggire quasi nessuno. Tuttavia, è così costoso un piccolo controllo in più? Sopratutto dopo i denari spesi per i body scanner? Non facciamo tornare alla memoria le immagini di un gruppo di uomini che passa un varco security lampeggiante senza essere fermati fermato da nessuno…

R.I.P. IE6 e la storia del software

Microsoft festeggia la scomparsa di Internet Explorer 6. Cosa che per l’utente medio di Internet è notizia di scarso interesse. Da tempo, infatti, i solleciti che il browser inviava, le incompatibilità sui siti curabili con l’installazione delle nuove versioni, o semplicemente il cambio del pc hanno portato gli utenti sugli aggiornamenti.
Qualche retrogrado, forse per il poco uso, per la refrattarietà ai cambiamenti o per la paura di qualsiasi popup con il tasto “Installa”, ha evitato l’ineluttabile. Ma oggi anche quell’1% ha dovuto cedere, forzatamente. Microsoft ha decretato la scomparsa di IE6. Punto.
Ripenso al mio Framework IV che usavo con le funzionalità di Office tra il 1989 e il 1992, e che è scomparso senza colpo ferire in data imprecisata. Missing in action, si direbbe. E che dire di Netscape, che da browser più importante è caduto nell’oblio senza potersi difendere? O, avvicinandoci ai nostri giorni, quanti possono dire di avere ancora Windows Vista? Ce l’avete? Bè, se leggete queste pagine vuol dire che avete acceso il pc, che è un mezzo miracolo.
Se con le tecnologie precedenti all’informatica, e con l’informatica stessa vista dal lato hardware, si sono fatti fior di musei, sarà possibile e avrà senso ricordare un giorno queste presenze giornaliere che sono i sistemi operativi e i programmi? Pare ci sia giusto spazio per un po’ di retrogaming, che è il gusto di riscoprire i giochini degli anni ’80 e farli girare emulandoli, ossia, plasmando delle schermate con i nuovi software in modo da renderle identiche o quasi a quelle vecchie, ma non sarà realistico vedere riprodotti i desktop tipici di Windows 3.11, di Lotus123 o di Fontographer – sfido qualcuno a ricordarsene – su macchine che vorranno assomigliare ai pc degli anni ’90. La storia di Internet, ad esempio, è principalmente la storia della rete fisica che la sostiene.
A rafforzare questa idea sta l’atteggiamento di grande soddisfazione che gli addetti ai lavori, tra cui tutti i blogger e i siti di riferimento nell’ambito software, hanno manifestato per la scomparsa. Qualcuno ci ha fatto pure le magliette (vedi sotto).
Maglietta commemorativa della scomparsa di IE6
Nessuno ha fatto le magliette quando il disco decadico è scomparso dai telefoni, e anzi, qualcuno lo ha voluto riprodurre sugli smartphone. Sta forse cambiando il modo di lasciarsi le “cose vecchie” dietro, che vanno completamente dimenticate, spesso anche per via della loro immaterialità. Cambierà con buona probabilità anche il modo di fare storia (della tecnologia), che non potrà più essere solamente la somma di selezione e interpretazione. Non vi sarà più a disposizione ciò che è scomparso: un tempo i manuali dei programmi erano cartacei, poi inclusi nel disco di installazione die software, e poi online. Una volta cessato di esistere il programma, le pagine saranno rimosse. Quindi, sempre maggiore importanza avranno progetti come Archive.org, che salvano dall’oblio homepage, interfacce e vecchie versioni.
Diversamente, come potremo apprezzare un giorno la bellezza di italia.it in una delle sue mirabili versioni iniziali?

incidente su Google Street View


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Potrà sembrare di dubbia utilità, ma cercavo il tracciato della Asti-Cuneo, dove non esiste ancora, e proprio dove l’autostrada dovrebbe sopraelevare la strada che da Roddi porta a Cherasco mi sono imbattuto in quello che si vede qui sopra.
La “Google Car”, l’automobile che porta le macchine fotografiche grazie alle quali sono realizzate le immagini che vediamo su Google Street View (e non c’è solo l’automobile…), è passata per certo dopo l’incidente, per cui non ne può essere la causa; sempre a meno che l’autista del camion non l’abbia vista da distante, e abbia concentrato l’attenzione su di essa perdendo quella sulla strada. In alternativa, potrebbe essere stata la riga gialla del tracciato autostradale a distogliere l’autista dalla guida, ma tecnicamente la cosa è un po’ più ardua, prevedendo tra l’altro la presenza di un head-up display con connessione Internet.
In ogni caso, diventa difficile superare la maggior parte delle immagini presentate qui, che comprendono gente con serpenti, finti ectoplasmi, gente che suona la chitarra, che fa i propri bisogni, cerbiatti investiti, prostitute al lavoro, e una geniale canadese che ha utilizzato la foto della propria auto presente su Street View per completare un annuncio di vendita.
Un modo, tuttavia, ci sarebbe: il Garante della Privacy ha sentenziato un po’ più di un anno fa che in Italia si deve sapere dove passa la “Google Car”, e a oggi esiste una pagina nel sito di Google Maps che informa sulla presenza, pur solo a livello provinciale, delle vetture marchiate Google. Quindi perché non perdere qualche giornata lavorativa per cercare queste ben riconoscibili automobili?

L’auto-tipo di Google

I risultati potrebbero essere utilissimi: vestendosi per bene, e facendosi immortalare, si potrebbe avere a disposizione una foto tipo carta d’identità ovunque ci sia una connessione Internet (ok, c’è il dettaglio che oscurano i volti); sapendolo per tempo, si potrebbe riportare la propria abitazione allo stato prima delle modifiche non registrate al catasto; per i più mattacchioni, si potrebbero improvvisare sessioni di planking al passaggio della macchina, e ancora…

ancora Amazon (e Gregory Zorzos)

Provate a inserire su Amazon.com – non l’ho fatto nella versione italiana – “silvio berlusconi” (le maiuscole in questi casi non contano), e vedete che viene visualizzato. In un post precedente si erano finte delle ipotesi sulle associazioni tra prodotti venduti sul sito, ma qui il risultato interessante sta nella lista dei libri ottenuti con la ricerca diretta.
Oggi all’undicesimo posto salta fuori un Day-by-day detail predictions of the Silvio Berlusconi life at 2011, peraltro alla modica cifra di 44 dollari e 26 centesimi nella sua versione Kindle, a opera di Gregory Zorzos, che per quanto mi riguarda è un illustre carneade. Ho quindi cliccato sul link correlato al suo nome, e le note biografiche che ne sono sortite hanno dello sbalorditivo. Eccole:

Gregory Zorzos, a native Hellene, was born in Kallithea, Athens in Greece (Hellas) at 1958. Author and his research work have been distinguished by a lot of official organizations, and Ministries, in Greece and all over the world.
The author has published more than 4,150,000 books, ebooks, board games, DVDs, cdroms, DVDroms, music Audio CDs, MP3s, epubs, notation files, documentaries, etc and many more are unpublished, about ancient and modern history in the fields of economics, technical, board games, martial arts, software, love affairs, feasibilities studies, research, case studies, learning languages, logodynamics, inner research etc.
As a reporter, from his teens, the author has written many articles in many newspapers, magazines etc. and was editor in chief in some of them.

Senza perderci nell’analisi sintattica, salta all’occhio l’iperbolico (uno direbbe flabbergasting) numero di pubblicazioni: quattro milioni e centocinquantamila. Quattro milioni e centocinquantamila siginfica circa una ogni quattro secondi e mezzo, considerando l’inizio dell’attività del prolifico elleno (mica semplicemente greco o ellenico, sentenzia la traballante biografia) a 18 anni, e ininterrottamente sino a oggi, giorno e notte. Ok, ammettiamo sia un errore.
L’uomo 2.0 a questo punto si rivolge all’oracolo. Serve dire quale? Fatto sta che come primo risultato salta fuori una nota biografica presente sul sito writers.com, appena più estesa della precedente, che anzitutto ci segnale che l’elleno è stato Presidente del Comitato Storico di moltre federazioni di arti marziali quali Pankration, Pammachon, Alindisis, Soma, Dielkistinda, Hoplomachia, Sciamachia, Pyx Lax, Rassein (ove non vi è chi non ne conosca almeno una cinquina). Dunque si suppone che ciascuna di queste discipline abbia una propria storia, e questo non è strano, ma che soprattutto disponga di volontà e risorse per costituire un proprio comitato storico. Per quanto ci può interessare maggiormente, si riferisce pure che Zorzos vanta a propria firma più di 800 libri, 300 giochi da tavola e 200 cd/dvd-rom relativi ai più disparati campi dell’umano sapere.
Siamo esponenzialmente scesi a circa 23 libri l’anno, che vuol dire uno ogni due settimane. Quanto basta per collocarlo comunque al terzo posto nella classifica degli scrittori più prolifici di tutti i tempi. I due che lo sopravanzano peccano però per varietà di temi, se è vero che la prima, Mary Faulkner, scrisse per lo più libri sentimentali, ed il secondo, Lauran Paine, trattò con massima attenzione solo l’epopea western, dedicando addirittura 200 libri al solo Buffalo Bill.
Fanno la figura dei dilettanti Geogre Simenon (appena 500) e Alexandre Dumas padre (con soli 277 libri).
Il testo su Berlusconi, però, prevede il “Look inside” di Amazon, grazie al quale si possono vedere in anteprima molte pagine del testo selezionato. E qui si capisce che le 753 pagine firmate da Zorzos sono con tutta probabilità generate in massima parte da procedure automatiche di analisi del tema astrale, dei ritmi circadiani, del tasso di alcol nel sangue, dell’alternanza di vittorie e sconfitte del Milan, del prezzo medio delle escort a Milano, delle variazioni dell’inflazione, e di almeno un’altra cinquantina di parametri più o meno vitali.
Il punto è: a chi diamine può interessare di spendere una trentina abbondante di euro per un’opera del genere? Si tratta in fondo di un manuale tecnico, e passi che lo sia per persone non nel pieno delle proprie facoltà mentali o per… un attimo… ci sono.
Se volete sapere a chi può servire, date un’occhiata qui.

anche i grandi sbagliano

Che chiunque voglia mettersi a fare e-commerce debba obbligatoriamente dare un’occhiata ad Amazon, pare indubbio. Gli ormai 17 anni di esperienza a livello prima locale, poi nazionale, poi sovranazionale e infine globale, la creazione di un database con i dati relativi agli utenti, ai loro ordini, alle loro preferenze, associati con una classificazione molto fine degli oggetti in vendita, consentono alla creatura di Bezos di compiere una serie di operazioni di marketing in “push”, ossia consigliando in modo più o meno vivo l’acquisto di altri prodotti, scelti per rispondere nel miglior modo possibile alla profilazione dell’utente.
Come tutti i procedimenti di grana fine, tuttavia, a fronte di un comportamento ottimizzato da un punto di vista globale, queste operazioni risentono di imprecisioni locali, specialmente se le informazioni al loro contorno sono meno “dense”.
L’esperienza personale, per quanto puntuale e quindi insignificante da un’ottica complessiva, mostra in ogni caso i limiti delle correlazioni di cui di accennava sopra.
Mi è capitato così di cercare la lampadina di ricambio di un epilatore a luce pulsata Remington (magari in un altro post parlerò del suo funzionamento), poiché valutavo un suo possibile acquisto su Ebay.
Nell’immagine qui sotto (conviene aprirla per osservare meglio) si possono vedere gli articoli correlati alla lampadina proposti da Amazon. Il risultato è abbastanza risibile: sembrerebbe che tutti coloro che acquistano la lampadina mettano nel carrello anche Angeli e demoni di Dan Brown e i ricambi della brocca filtrante “Brita”. Poiché quindi, più che mai, tout se tient, si potrà ben immaginare l’acquirente in questione mentre si epila le ascelle (o altra peluria cutanea) leggendo Dan Brown, rinfrescandosi di quando in quando con la chiara, fresca e dolce acqua ottenuta dalla filtrazione dell’immondo prodotto di rubinetto cittadino.
Potrebbe quindi valere la spesa verificare le correlazioni di altri prodotti, quali salmoni o stoccafissi norvegesi (chissà che non si accompagnino a libri di Vespa), vibratori (magari trovando corrispondenza con opere di Odifreddi), o biografie napoleoniche (ça va sans dire, vedendo suggeriti gli scritti dell’ex-presidente del Consiglio).

i santuari della tecnologia (ovvero, cose che potresti fare in un museo dell’automobile)

Nulla da dire. Bella ristrutturazione. La sede storica del Museo Nazionale dell’Automobile “Biscaretti di Ruffia” (è “Ruffìa”, con l’accento sulla “i”, per fare i precisini) ha beneficiato di un restyling che ha visto l’assegnazione nel 2005 a un gruppo di aziende e il termine dei lavori nel 2011.
Oggi la hall principale del Museo è ornata da pannellature verticali metalliche, la cui traforatura potrebbe ricordare quella dei pedali delle auto da corsa. Gli ambienti sono stati pensati da un designer la cui opera è così descritta sul sito (http://www.museoauto.it/website/it/museo/storia-del-museo):

L’esperienza acquisita da Francois Confino in altri progetti simili (a Torino ha già allestito il Museo del Cinema), ha aiutato ad immaginare un concetto inedito che posizionerà il Museo di Torino all’avanguardia nel campo dell’arte di esporre le auto. Il filo conduttore sarà “l’auto osservata come creazione del genio e dell’immaginazione umana” e ciò, innanzitutto, al fine di far conoscere e di valorizzare l’immenso bacino di talenti, l’estro creativo, l’artigianalità e le capacità imprenditoriali esistenti a Torino ed in Piemonte.

Corfino ha compiuto un lavoro esemplare al Museo del Cinema, dove si entra negli ambienti che ricostruiscono le scene di film famosi. Si ha un piacere infantile quando ci si può sedere sui cessi che ricreano la scena della cena de Il fantasma della libertà di Luis Buñuel. Si possono vivere gli ambienti, si toccano le cose, si girano le manovelle, si è pienamente dentro il museo.
Niente di tutto ciò al Museo (Nazionale) dell’Automobile. Pur nei nuovi ambienti, pur disposte in una sequenza cronologica, pur vivacizzate da modellini in movimento, le (gli) automobili sono solo in mostra. Non le si tocca, e anche se non le separa dal visitatore il cordone rosso dei vecchi allestimenti, non si è invogliati a toccarle. E’ come essere in un autosalone, dove però il futuro acquirente non può sedersi al volante e mimare la sterzata, aprire la porta per poterla chiudere e apprezzare il rumore delle guarnizioni che aderiscono, sollevare il portellone posteriore e valutare la capienza del bagagliaio.
Clay McShane, professore di storia della tecnologia alla Northeastern University di Boston, una ventina di anni fa pubblicò alcune considerazini sul museo torinese (Exhibit Review of the Museo Dell’Automobile Carlo Biscaretti Di Ruffia, “Radical History Review”, 51, Fall, 1991, pp. 107-113) sostenendo che fosse paragonabile a una cattedrale, e di come lì fosse impossibile procedere a una critica (anche in senso neutro) dell’automobile, così come non si critica la religione in chiesa (l’articolo non lo trovo più, questo è quanto mi ricordo dalla sua lettura e da una conversazione con il professor McShane).
Almeno, nelle teorie di santi nelle basiliche bizantine, i canonizzati hanno peso e dimensioni in ragione della loro fama all’interno della chiesa; al Museo dell’Automobile non vi è nemmeno questo. Della Lancia Lambda, apparsa nel 1923 come la prima automobile nella quale il telaio a longheroni era stato rimpiazzato da una struttura in lamiera imbutita, per mezzo della quale la scocca della vettura diventava portante, nessuna segnalazione se non nome, produttore e periodo di produzione. Nessuno schema a supporto, nessun disegno progettuale, nessun video, nessuna animazione. Una vettura come le altre a fianco, tutto qui.
E ancora, siamo distanti da approcci come quello del Technomuseum di Mannheim, dove addirittura l’autovettura è esposta nel suo stato di incidentata – orrore! -, o di altri musei, che prevedono percorsi didattici interattivi. Il paradigma di riferimento è invece quello del Museo Egizio, dove un reperto della III dinastia non si tocca così come non si tocca uno del periodo copto, pur essendo i due separati da tremila anni. La Itala, rialzata dal pavimento, non è accessibile come non lo è l’esemplare della Tesla Motors, pur collocato a pavimento. Come se delle automobili contasse solo la forma esteriore.