La banca e il gatto di Heisenberg

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In questo fine settimana sto leggendo Incertezza di David Lindley, uscito nel 2008 per Einaudi. Narra dello sviluppo della fisica quantistica, e in special modo della formulazione del principio di indeterminazione da parte di Karl Heisenberg (per una volta non c’entra Breaking Bad). Lindley ripercorre le mosse che portarono Bohr, Born, Schrödinger e Heisenberg a comprendere che, a differenza di quanto avviene nella fisica classica, quando si entra nel dominio dei quanti non vi è la possibilità di determinazione certa di parametri semplici quali velocità e posizione delle particelle.

Per un caso di synchronicity, proprio in questo fine settimana sono capitato sul sito dell’Unicredit, che tra le schermate in alternanza proponeva quella raffigurata qui sopra. Vi è pubblicizzato il prestito CreditExpress Dynamic, grazie al quale la ragazza della foto ha potuto realizzare il proprio desiderio di andare a Parigi. Tra l’altro, mica la Polinesia francese, tanto per non cambiare lingua, ma Parigi, dove un centello basta per un biglietto aereo low cost, e con GuesttoGuest si sta senza spendere un centesimo, ma non stiamo a giudicare le necessità alberghiere dell’amica occhialuta: magari la signorina in questione alloggia al Four Seasons, da qui la necessità di un prestito.

Ora, mi si dirà: dove sta la synchronicity? Basta osservare la frase a corredo, sotto “CreditExpress Dynamic”. Eccola: “Il prestito personale che potrebbe permetterti di avere una rata sostenibile”. Ci ho ragionato un po’ su, ed espongo qui di seguito qualche risultato.

Contenendo la frase il condizionale, l’evento “potrebbe permetterti una rata sostenibile” è possibile, con probabilità non nota, ma si deve pure dare come possibile l’affermazione “potrebbe permetterti di avere una rata non sostenibile”, che contempla l’evento complementare, non incluso nel caso dell’indicativo. Infatti, se fosse stato scritto “può permetterti”, se ne conviene che “non può permetterti” è negazione non contemplabile come possibilità. Invece, con il condizionale si vuole ammettere come caso possibile quello per cui il prestito permetta una rata non tollerabile per chi contrae l’impegno.

E’ questione appena più sottile, ora, dire se la rata sia intollerabile per il contraente prima o dopo l’avvio della pratica. Ragion per cui vale la pena immaginare entrambi i casi.

Caso Primo: si può verificare in due sotto-casi.

Sotto-caso A: un ipotetico cliente, letto l’annuncio e desideroso di trascorrere una vacanza a Budapest con amici più facoltosi, comprende prima della firma che la rata del prestito per lui non è sostenibile. Immaginava il gruzzoletto scomposto in una teoria di pagamenti mensili che avrebbero reso possibile il proprio sogno. Ma l’applicazione del tasso di sconto praticato dalla banca rende il fio mensile così maggiore del risultato della semplice divisione della somma complessiva per il numero di mesi, che il tapino rinuncia, china il capo e prende la porta dell’Istituto. Trattasi di persona alla quale è corretto non concedere fiducia.

Sotto-caso B: il cliente esce dall’edificio che ospita la filiale poiché non è stato giudicato solvibile, disponendo di reddito troppo ridotto, o risultando già esposto su altri fronti. Poco male, invece di Budapest gli toccherà ancora una volta la gita fuori porta. In vettura, qualora ne disponga di una; in difetto, con mezzo più modesto.

Caso Secondo: il cliente riesce a ottenere l’erogazione del prestito, ma si rende conto in un secondo tempo che la rata non è più sostenibile per le proprie facoltà economiche. Salta il pagamento di una rata, poi di un’altra, di un’altra ancora, e pur recando con sé il ricordo della bella vacanza passata a Budapest (quella bionda con gli occhi color asfalto gli ha pure rubato un pezzo di cuore), deve a malincuore sopportare il pignoramento del proprio scooter.

Ora, il Caso Secondo non è e non deve essere affare della banca. O meglio, lo è ed è in pieno nei pensieri della banca proprio nel momento in cui propone un prestito con tasso di interesse attorno al 10%. Oltre all’attualizzazione del capitale, questa percentuale tiene conto proprio dei rischi connessi al prestito, ossia il recupero del credito in caso in insolvenza, il pignoramento, le pratiche relative. Firmato il contratto, la transazione è considerata equa da entrambe le parti, sicché nessuno può più avere ripensamenti giustificati.

Ma il Caso Primo, in particolare nel suo Sotto-caso B, è ottima manifestazione del principio di indeterminazione. Ossia, lo strumento finanziario è sospeso in un limbo, nel quale le rate che può produrre non hanno (ancora) manifestazione. Così come il gatto di Schrödinger è potenzialmente vivo dietro la porta. E’ il cliente a determinare la caratteristica della rata, così come l’osservatore, in ragione della propria attività speculativa, fa realizzare una delle eventualità previste per la sorte del gatto. E’ il cliente a scoprire, condizionando attivamente il sistema messo in piedi dalla banca, se sarà degno oppure no dell’erogazione del prestito. Che non è dynamic a caso, con buona pace di Newton.

Siamo in presenza della banca quantistica, che non distribuisce certezze, ma eventi probabilistici. Per equità, a questo punto, dovrebbe essere pubblicizzato il cliente quantistico: “Giovanni, il cliente che potrebbe ripagare con regolarità il proprio mutuo”. Purtroppo, ho idea che già esista.

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Quello originale (non quello di Breaking Bad)

quando il papa faceva i ponti

Risposta a questo articolo di Davide Cardile.

 

Davide,
concordo pienamente sul fatto che il distacco dia una visione più libera. Capita anche a me una cosa simile, specie ora che non mi occupo più a tempo pieno di Web e argomenti connessi.
Ugualmente, è necessario e igienico essere sinceri, perché dopo la “rivoluzione digitale”, come l’hai chiamata tu, una falsa dichiarazione ti si ritorcerà contro, prima o poi, e questo non solo se metti foto false del tuo albergo.
Mi permetto però qualche considerazione sulla restante parte del tuo post, in particolare quando parli di pontificare e di parlare alla folla.

Pontificare

Nella Roma antica il pontifex maximus era colui che – a dir poco etimologicamente – si occupava della realizzazione di ponti, non solo spirituali, ma pure fisici. In ogni caso, si curava di connessioni, insomma, di comunicazioni, cosa che lo lega in modo inaspettato al nostro scenario. Il fatto che “pontificasse”, nel senso da noi oggi attribuito al verbo, era dovuto al suo prestigio. Pontificare è funzionale al dimostrare la propria certezza nell’affermare qualcosa. Non saremmo credibili se dimostrassimo troppa decisione nel sostenere una posizione, ma altrettanto non lo saremmo se non sostenessimo in modo vigoroso le nostre opinioni. Per dirla tutta, tu e il sottoscritto, con i nostri rispettivi post, pontifichiamo. Siamo assertivi nelle nostre dichiarazioni, essendo certi delle nostre ragioni. Quando uno scrive una tesi di laurea, in ultima analisi pontifica, perché spesso è il massimo esperto mondiale di quell’argomento.

In ultimo, qualche logico potrebbe dire a te e a me che non possiamo criticare chi a nostro dire pontifica sul web scrivendo a nostra volta sul web. Ma qui andiamo su questioni di lana caprina, e fa troppo caldo.

Parlare alla folla

Che ti dia fastidio l’arringa digitale posso capirlo e in parte condividerlo, ma altro doppio pregio della “rivoluzione digitale” è la possibilità sia di pubblicare urbi et orbi il proprio pensiero, te e me compresi, sia di ricevere gradimento (diretto) o disgusto (più indiretto). Chi scrive pensieri e opinioni poco o nulla condivisi dai più cadrà in un oblio digitale determinato dal poco riscontro ottenuto; ma rimarrà sempre liberissimo di immaginare il lector in fabula dei propri scritti. Nessuno scrive senza figurarsi, in modo più o meno conscio, il destinatario delle proprie righe, e se scrive su Web sarà il riscontro degli altri utenti a dirgli se ha ragione o torto.

Ho detto la mia qualche tempo fa sulla polemica per l’uso “simil-Facebook” di LinkedIn. Proprio per la natura partecipativa e sociale del social network, sino a che qualcuno non lede articoli del regolamento che ha accettato al momento della registrazione, non vi è chi possa dirgli che argomenti trattare. Anche in questo caso, saranno gli altri utenti a decretarne la fama o l’insuccesso. Non vi è nulla di intrinsecamente sbagliato nel mettersi al balcone e dire le proprie idee. Come non vi è nulla di sbagliato nel consigliargli di starsene al chiuso. Così, non si lamenti chi non passerà il prossimo colloquio di lavoro perché ha messo la propria foto da ubriaco su LinkednIn: avrà solamente reso più facile il vaglio da parte del reparto risorse umane, che si sarà risparmiato il giro su altri 5 o 6 social newtork.

Speakers-CornerIn definitiva, se usiamo questo strumento e ne accettiamo le regole d’uso, dobbiamo a mio avviso farlo fino in fondo; credo che da un lato l’indifferenza per chi scrive in modo malamente improprio o volontariamente offensivo, e dall’altro il commento e la critica per chi argomenta in modo diverso dal nostro, ma lo si giudica comunque sincero e rispettoso, siano le modalità con le quali dovremmo mantenerci all’interno del Web e delle sue propaggini.

Un saluto

Atlases and treasure maps

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Astonishment. This is the feeling I had when I came across this article, and the related link. My feeling is not among the five listed in Paul Ekman’s Atlas of Emotions, thus negligible, nevertheless I feel the urge to talk about my reaction.

This modelization suddelly reminds me the that of humoralism, in the way it was defined when it made its last comeback in the eighteenth century after being conceived by Egyptian and Greek medicines (especially by Hyppocrates and Galen).

Humoralism is both an etiologic theory of disease and a theory of personality: the personal disposition to excess in one of the four humors defines a character and together a complexion:
– the choleric, exceeding in yellow bile, is thin, dry, well-colored, irritable, touchy, clever, generous and proud;
– the melancholic, redundant of black bile, is thin, weak, pale, covetous, sad;
– the phlegmatic, exceeding in phlegm, is happy, slow, lazy, peaceful and talented;
– the sanguine, redundant of blood, is ruddy, jovial, cheerful, greedy and addicted to a playful sexuality.

Almost needless to say, the theory was abandoned as a scientific medical-psychological approach spread. Humoralism worked because there was no better explanation for one’s behavior. It was simple, solid, and it derived from the tendency that between fifteenth and eighteenth century produced formalization trying to cope with flows, be them acqueous, sanguineous or oleic.

Human love trying to gain simple understanding. In 1812 the French matematician Pierre-Simon Laplace wrote in his Essai philosophique sur les probabilités (the excerpt comes from the translation by Frederick Wilson Truscott and Frederick Lincoln Emory, entitled A Philosophical Essay on Probabilities and published by Dover, New York, in 1951):

An intellect which at a certain moment would know all forces that set nature in motion, and all positions of all items of which nature is composed, if this intellect were also vast enough to submit these data to analysis, it would embrace in a single formula the movements of the greatest bodies of the universe and those of the tiniest atom; for such an intellect nothing would be uncertain and the future just like the past would be present before its eyes.

Science was progressing at such a pace that the idea of this “demon” (hence called “Laplace demon”) could sound somehow achievable. A huge calculator able to perform such forecasts was to be built, someday.

Today, scientists do not believe this “intellect” may ever exist. How can they be so sure? Because Nature, fortunately, works in a non-linear manner. Which, on its turn, means that a certain input on a system in a certain state does not always lead to the same output. Or, more precisely, that slight modifications in the starting conditions generally lead to more than significant differences in the final state of the system.

Be it said, all this happens when we have an accurate knowledge of the system; but what if the information required is censored by the system itself? Indeed this is what human mind does: it stores some information in a way that makes it inaccessibile to our consciousness. This fact, called repression, should be well known since Freud’s work, and is the reason why we are not capable to analyze ourselves in a complete way. We are not able to detect triggers because we simply do not have conscious clues about them.

Human mind structure may lead to actions – I refer to the word as it is used in the Atlas – which are not those foreseen by the Atlas itself. Due to anger, one could physically assault somebody else, thus determining an unexpected behavior. Unexpected not only by the assaulted, but also by the assaultant, as the latter has no way to consciously know the trigger leading to such action, thanks to the work of superego. Only a shrink can help, starting a five-years process which will clarifiy the root causes for that behavior. But even after a psychoanalytic treatment, no one is be able to determine if, once set a certain stage, in a specific moment the threshold causing that behavior will be exceeded or not. No model can be deterministic and predictive.

If an atlas is our aim, what we can get at best is a “T and O map”. If mastering our emotions is our goal, luckily this is not possible as completely as proposed. We survived and evolved because we cannot completely control ourselves. When needed, we behave almost unconsciously (e.g., in case of severe personal danger). A largely diffused essay such as Malcolm Gladwell’s Blink gives some useful examples of this process.

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I am not saying we are not supposed to try to know ourselves better, to improve ourselves, to get the best from ourselves. On the contrary, personal improvement should constantly drive us amid the events we encounter. Bur trying to modelize in such narrow frameworks the amplitude and the degrees of our emotions is, in my opinion, useless.

Unless we have a contemplative life such as, as an example, that of… the Dalai Lama. Deepening one’s knowledge is possible, yes, only through long time devoted to self assessment (the term is deliberately used). The Atlas, though, is not intended to be used only by cloistered monks, yet by western workers. But they cannot just use it.

Resuming:

  • modelizing human emotion sounds a little outdated;
  • it is also pretty useless, as the spectrum of human feelings well surpasses the some dozens listed in the Atlas;
  • Nature’s complexity outscores our ability to control events;
  • factors triggering our emotions are often non-conscious (inconscious or subconscious);
  • a non-monk has no chance to deepen his or her own self-knowledge in the terms proposed by the Atlas without help from specialized professionals;
  • a short scheme is more marketable than a long essay.

un motto al giorno

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Scorrendo la pagina home di LinkedIn ognuno può apprezzare la ricchezza di post che ogni giorno offrono consigli utili per affrontare il proprio lavoro, per approcciare i clienti, per gestire le risorse umane, per costruire relazioni efficaci, per scrivere il proprio curriculum e quant’altro ancora.
Molto spesso questi consigli appaiono sotto forma di immagini (vorrei dire tazebao, ma il rischio di farmi dare del maoista è forte), per cui ogni giorno, come in un almanacco, troviamo una frase celebre, una citazione, un motto.
Aspetto di un certo interesse è che questi post spesso vengono sempre dalle stesse persone, che non si curano molto del fatto che il motto di un giorno sia in contrasto almeno apparente con quello della settimana precedente, o che una lista sia quasi la copia carbone di un’altra pubblicata solo qualche settimana prima.
Così, tra leoni che si alzano al mattino e sanno che fare, vademecum sulla gestione dei clienti, imperdibili flash su come evitare il mobbing, assistiamo alla condensazione della nostra esperienza in atomi di saggezza che ben poco possono contro la complessità naturale della realtà. O, per converso, che brillano per ovvietà.
Come quel cartello che forniva, con tanto di ausilio iconico, le otto chiavi per mantenere i migliori talenti in azienda: pagare bene, riconoscere i risultati, creare un buon ambiente di lavoro, dare obiettivi condivisi, instaurare la fiducia nei rapporti personali, dare feedback, fornire servizi di mentoring e impostare
piani di crescita. E dire che ero perfettamente convinto che un lavoro sottopagato in un ambiente altamente mobbizzato, senza fiducia nei colleghi e con fosche prospettive per il futuro fosse il perfetto mix per motivare le persone a rimanere in azienda.
Le rappresentazioni grafiche sono efficaci perché condensano in un colpo d’occhio saperi altrimenti accessibili solo dopo anni di studio matto e disperatissimo. Così, dando la giusta rilevanza al lavoro di gruppo, un’immagine che prende spunto da Galileo e dai Giapponesi ci insegnerà che dietro ogni problema c’è un’opportunità; altre ci convinceranno che stiamo meglio soli che male accompagnati, che chi fa da sé fa per tre, ma anche che nessun uomo è un’isola, e che se le formiche si mettono d’accordo, possono spostare un elefante.
Se anche tutti i motti proposti fossero utili e sensati, perderebbero di effetto per la loro stessa natura. Un motto è una sentenza che per acquisire valore utile deve essere approfondita, vissuta, sperimentata. Se ce ne passa davanti uno al giorno non ce ne facciamo nulla. E soprattutto deve essere scelto perché ci si confà, non perché “suona bene” ma non ha nulla a che fare con noi.
Un tempo le famiglie sceglievano motti che, per via della storia pregressa, fornivano la cifra (reale o spesso idealizzata) degli atti dei rappresentanti della famiglia stessa. Erano inseriti negli stemmi (o armi) delle famiglie, e così in quello dei Mazzinghi di Firenze si poteva leggere “chi la fa l’aspetti”, mentre
“virtù sola fa l’uomo” era il motto dei Belli di Torino, a testimonianza che ai primi non conveniva far torti se non si voleva una rappresaglia da parte di tutti i componenti della famiglia sino agli ultimi rami cadetti, mentre i secondi facevano dell’agire virtuoso la propria bandiera.
In modo simile, gli ordini monastici hanno motti che qualificano la missione che si prefiggono. Ne è forse l’esempio più celebre “ora et labora” dei Benedettini. Se questo fosse alternato da un giorno all’altro con “ad maiorem dei gloria” dei Gesuiti o dal più ecumenico “pax et bonum” dei Francescani, che concluderebbe il novizio? Forse, “quindi niente più orto? Peccato, avevo i fagiolini che stavano per spuntare”. I frutti dei motti sono solo di lungo periodo.
E’ pur vero che la società e l’organizzazione del lavoro cambiano a ritmi crescenti, ma forse proprio per questo occorre avere punti saldi, dai quali partire per approcciare la realtà che ci troviamo di fronte. Questo, a meno che l’azienda scelga “un motto al giorno” come motto.

almanacco Hindu

trova i doppioni

trova-i-doppioni

Fastweb ha appena lanciato l’operazione “WOW FI”, che apre alla possibilità di avere connettività territoriale per tutti gli utenti Fastweb in diverse città italiane. A prescindere dalla bontà dell’occasione, spicca per fattura l’immagine a corredo della campagna.
Attratto da una distonia che non avevo ancora qualificato con precisione, ho osservato più in dettaglio l’immagine. La disarmonia è anzitutto generata dalle diverse esposizioni dei visi, che sono pure ritratti con luci provenienti da diverse angolazioni.
Ciò che distingue ancora di più l’immagine è la ripetizione di diversi soggetti, anche se rappresentati “a specchio”. Invito a trovare le ripetizioni.
La domanda va al grafico: costava così tanto prendere persone tutte diverse tra loro?
La ricerca iconografica è fondamentale per aiutare l’attenzione dei possibili clienti. Confidare che l’attenzione di questi sia bassa a tal punto da non permettere di vedere errori marchiani come questo è poco gentile. Se riteniamo che i fruitori dei nostri siti si meritino una bassa qualità editoriale, cosa se ne deve dedurre in merito al servizio che sarà loro erogato?

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La diversità del Diversity Management

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In tempi in cui in Italia le parti politiche non trovano l’accordo su leggi riguardanti le diversità, i giornali americani parlano con interesse crescente di una figura manageriale, la cui importanza è frutto culturale della società statunitense, ma che senza dubbio sarà inclusa anche negli organigrammi delle imprese europee: il diversity manager.
A inizio novembre 2015 Leslie Miley, un manager di Twitter, aveva rassegnato le proprie dimissioni perché a sua detta l’azienda non ha portato avanti una politica credibile di “inclusione”.
Nella dichiarazione di Miley si legge che un Senior Vice President (Alex Roetter, si scopre dalla pagina
https://about.twitter.com/company/press/leadership) aveva suggerito in modo inconsciamente comico l’uso di un algoritmo capace di identificare l’etnia di un candidato a partire dal suo nome e cognome. http://www.textmap.com/ethnicity/ offre un simile algoritmo, che fornisce risultati piuttosto ridicoli, se si pensa che classifica come “Greater European, British” un nome fortemente afroamericano come “Latisha Brown”.
Il discorso è trito, eppure non se ne viene a capo. Se una persona è assunta in virtù di una legge, di una quota etnica, o relativa all’orientamento sessuale, o alla fede calcistica, non è a priori discriminata in modo esplicito e riconosciuto?
Se un’azienda deve impiegare un manager per gestire le assunzioni in modo tale che rispettino le minoranze, ciò significa che in sua assenza queste non otterrebbero un’equa considerazione.
Il tutto si basa, peraltro, su determinazioni quantitative delle percentuali in cui i candidati a un posto di lavoro si suddividono: perché il diversity manager possa operare in modo corretto, è quindi necessario, ad esempio, sapere quanti dei candidati sono gay, in modo da attribuire loro la giusta rappresentanza. E se non si dichiarano? Tanto peggio per loro, si dirà.
Poi, siccome da una certa dimensione in su le aziende devono prevedere assunzioni di portatori di handicap, non ci si troverebbe, pur con una formalizzazione più sfumata, ad accomunare gay, stranieri e romanisti (nell’ipotesi di applicazione di criteri come quelli di cui sopra) a persone in carrozzina? Chi ne sarebbe felice? E chi scontento? E se sono assunto perché sono straniero, ad esempio, non correrò il rischio di essere discriminato perché ho ottenuto il lavoro non solamente grazie alle mie capacità, ma anche per mie caratteristiche personali che nulla hanno a che vedere con la mia abilità lavorativa?
E conta di più essere peruviano, di madre lingua araba, donna o cieco da un occhio?
Ancora, se un’omosessuale è anche valdese e incinta, sarà preferita a chiunque altro perché si trova all’intersezione di più minoranze?
A parte le boutade, questosembra un percorso sulle uova, che tuttavia deve essere affrontato e risolto in modo programmatico. Frugando in rete si trovano diversi corsi di Diversity Management, ma leggendone i programmi si avverte l’estrema aleatorietà degli schemi di riferimento, la variabilità della stessa definizione del campo di azione (qualche corso contempla quasi solo diversità di tipo etnico), e la labilità delle azioni da intraprendere.
Purtroppo lo scenario migliore è quello nel quale tutte le intelligenze sono attive, le persone sono valutate in base alla loro capacità e di conseguenza sono assunte. Ma diamo troppo peso a quelle che chiamiamo diversità. Il paradosso è che cercare di andare oltre queste diversità prevede la loro ratifica, quindi la santificazione del cosiddetto “uomo medio”. Che farà gioco forza più fatica (a meno che non sia mancino) a essere assunto, perché non porta con sé diversità rispetto al canone.

manteniamoci tutti professionali: hack LinkedIn!

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Negli ultimi giorni un’immagine tra le più condivise su LinkedIn è quella qui sopra. Il messaggio è semplice: LinkedIn è un social network legato al mondo del lavoro, quindi deve essere usato in modo professionale, senza lasciarsi andare a “problemi di matematica”, “che cosa mangerete a pranzo”, oltre che ai selfie.
Richiesta più che legittima, si dirà. Perché lordare i contenuti seri e certificati che gli utenti osservanti postano con cura e passione con osservazioni che non hanno nulla a che fare con il mondo del lavoro?
A pensarci appena più attentamente, però, mi pare che la richiesta sia non solo ingiustificata, ma inutile, e addirittura dannosa. Oltre che perbenista. Ecco perché.
1) Esistono delle policy esplicite, normalmente declinate al negativo, che sanciscono le libertà degli utenti sui social network. Ossia, per semplicità questi regolamenti dicono ciò che non si può dire o pubblicare. Se scrivo insulti razziali su Facebook, il mio post sarà rimosso. Se pubblico un video su YouTube con umani nudi, questo viene oscurato. Se uso turpiloqui in una recensione su Amazon questa non verrà pubblicata.
Che ciò porti al limite del ridicolo è quasi inevitabile: in una vecchia policy di Facebook le categorie proibite per le immagini erano “Sesso e Nudità”, “Uso illegale di droghe”, “Furto, vandalismo e frodi”, “Messaggi d’odio”, “Immagini forti”, “Blocco degli IP”, “Automutilazione”, “Bullismo e assalto”, “Minacce credibili”. Da cui, ad esempio, il recente caso di censura de L’origine del mondo di Courbet. Ma sarebbe interessante conoscere i criteri per la classificazione delle “immagini forti”, dei “messaggi d’odio” e delle “minacce credibili”.
Tuttavia, sino a presente nessuno può impedire a qualcuno di pubblicare su LinkedIn foto del proprio cane, come ben chiaro se si leggono le ”Attività consentite” e “Attività non consentite” di LinkedIn. Nella lunga lista di attività che l’utente conferma di non voler svolgere all’interno del network è incluso tutto ciò che gli utenti normalmente fanno (incluse le promozioni di schemi piramidali di networking, di attività legate alla prostituzione, lo spam, il phishing e altre amenità).
2) Detto di ciò che non si può fare in un social network, quello che invece è concesso fare ha come limite non già la fantasia, ma banalmente l’uso intenzionale degli utenti. Sono gli utenti che plasmano LinkedIn come qualsiasi altro network, così come in passato sono stati plasmati i grammofoni, gli orologi, le biciclette e le lampadine (chi non credesse a una simile affermazione può leggere La bicicletta e altre innovazioni di Wiebe Bijker, purtroppo a oggi piuttosto introvabile nella sua versione italiana). Se l’evoluzione di oggetti tecnici fisici è stata oggetto di contrattazione sociale, non è facile comprendere come lo sia quello di un’applicazione web.
Si pensi a Twitter, nel quale l’uso dello hashtag (#) e della chiocciola (@) sono stati introdotti dagli utenti; ancora, da mesi si vocifera di una possibile rimozione del limite dei 140 caratteri, che, immesso agli albori poiché Twitter funzionava attraverso gli SMS, non fu più necessario dopo breve, ma è rimasto come carattere distintivo del microblogging. Dopo che una tecnologia appare sul mercato, non è il produttore a virare, ma gli utenti che la indirizzano verso usi non previsti, a forzarne le modifiche quando uso e struttura divergono troppo.
3) Credo che LinkedIn non si lagni per nulla dell’uso “ampliato” del proprio network. Più aziende bloccano Facebook sui dispositivi connessi nella propria rete, più utenti si rivolgeranno ai social network ancora a disposizione, e normalmente LinkedIn non è bloccato dai firewall. Quindi, aspettiamoci l’invasione dei gattini su LinkedIn. E aspettiamoci una “zona relax”, un “coffee talks”, una “area break” all’interno del network, dove si può per un attimo allentare il nodo della cravatta.
Il preteso mantenimento continuo della professionalità su LinkedIn suona invece come la rimozione della pausa caffè, e diventa arma a doppio taglio per coloro che lo richiedono per il classico argomento della trave e della pagliuzza. Quanti infatti tra gli argomenti considerati “professionali” sono invece banalizzazioni di filosofie più nobili, quante vignette “serie” sono senza particolare utilità e significato, e quanti motti e massime sono in realtà malcelati dettami da macelleria PNL? Non è preferibile qualcuno che rilascia la tensione e ride di gusto per poi tornare a fare le cose seriamente rispetto ad altri che nemmeno quando si concentrano riescono a produrre qualcosa di utile? Il perbenismo spesso mostra poca elasticità mentale.
E poi pensiamoci, se LinkedIn serve a capire che persona è quella che stiamo per assumere, o per proporre per un’assunzione, non è più comodo conoscerla in modo più completo sul solo LinkedIn senza dover per forza scandire le sue gesta su Facebook, Pinterest, Instagram, Twitter, Vine, Periscope, YouTube e Gazzetta.it?

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P.S.: poi, se come è capitato a me, a richiedere che LinkedIn sia mantenuto professionale è la signorina di cui sotto, mi adeguo volentieri. Con quel calzino può dire ciò che vuole.

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il nuovo logo Enel

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Il nuovo logo “globale” di Enel è stato presentato il 26 gennaio a Madrid. Luogo scelto per la presentazione è stato la sede di Endesa, una società controllata. Si è molto detto delle somiglianze tra questo logo e quello ancor più celebre di Google.
A mio avviso le differenze tra questo logo e quello di Google sono tutte a sfavore di Enel.
1) i contorni sono sfumati; questo dà incertezza di lettura, evanescenza, inconsistenza.
2) i colori sono sfumati: Google ha abbandonato questa soluzione, preferendo aree solide, senza sfumature e senza ombre.
*** come conseguenza di 1) e 2), la leggibilità del logo è bassa ***
3) il grigio, a che cosa serve? Perché non utilizzarlo per un colore “vero”, che connota e ispira?
4) arriva dopo, semplicemente, quindi non ha il pregio dell’originalità.
La vecchia regola di consistenza del logo sarebbe stata utile a Enel. Ma evidentemente non è stata utilizzata, ci mancherebbe. La regola recitava più o meno: prendi il logo, riducilo, portalo a bianco e nero e mandalo via fax all’interno di un documento. Questo logo funzionerebbe ancora?

The perfect resume and summary

How-to-Make-a-Perfect-Resume-Different-from-Others

I am pretty much tired of reading always the same things about people who say they are able to manage teams, that they wholehartedly want to work in cooperation, that they are willing to labour with people. Bullshit. At best, you like to work with someone because you like them as persons, not because you have to like them as they are part of your team. Normally, you prefer to work by yourself, and you are not likely to share credit for your results with them. Hey, it’s carreer, babe.
Why not try to be brave and honest? Say you do not give a damn about your colleagues. Admit you would step on them when it’s about advancements. Confess you would better be alone in your cubicle. Or, say you like to work with somebody just because you like them for real, showing it by giving credit to what they do, but you cut throats with much more pleasure. Think that even Google’s algotithm prefers truth: don’t you think people will discover the real you, sometime?
Ok, let’s get real: you have to find a job, and you are not totally wrong if you think that employers look for people who generally don’t pick their nose in public. But do you really think you will outstand by copying and pasting those few lines you found in some other’s profile? Come on.

See my previous post on resumes.

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La Volkswagen, il barone di Münchausen e i mocassini

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Giudicare l’importanza e le ricadute di lunga portata di eventi appena accaduti non è per nulla facile. Il caso Volkswagen è sulla bocca di tutti, ma sapere se tra un anno la casa del Maggiolone ricomincerà dalla produzione di macinapepe, o se la quota delle auto ibride sarà al 20%, o ancora se Angela Merkel girerà il mondo come conferenziera al pari di un qualsiasi Bill Clinton è compito arduo.

Qualche pensiero sparso, oggi, potrà però suonare utile tra qualche tempo, quando la polvere dell’esplosione si sarà depositata.

La Volkswagen è nell’occhio del ciclone, e si lecca preventivamente le ferite che le saranno inferte da EPA, EEA (l’Agenzia Europea dell’Ambiente), class actions di qua e di là dell’oceano, perdita di fiducia da parte della clientela e necessari richiami delle vetture non conformi. Ragion per cui stanza sei miliardi e mezzo di euro, curiosamente la stessa somma stanziata dal governo tedesco in previsione dell’arrivo dei profughi siriani. Chissà che la prossima settimana il nuovo AD Volkswagen non dichiari in conferenza: “Siamo al collasso, non possiamo richiamare le vetture non conformi”.

Proprio l’EPA offre in prima pagina del proprio portale un articolo, datato 18 settembre, il cui titolo rende ridicolo l’uderstatement di Stanley alla vista del dottor Livingstone: Carmaker allegedly used software that circumvents emissions testing for certain air pollutants. All’interno dell’articolo, almeno, appare il nome dell’imputato. Sul portale EEA, invece, si scorre una sequela di articoli che avrebbero destato attenzione nel 1973, ma non molto dopo.

La patata bollente non la vuole proprio nessuno: il governo tedesco, per bocca del suo ministro dell’Ambiente Alexander Dobrindt, fa sapere di essere a conoscenza di un’azienda produttrice di auto con sede a Wolfsburg, di aver commissionato test sulle emissioni di inquinanti da parte degli autoveicoli, ma poco di più. Non vi è conferma, invece, sulla sua possibile affermazione “la Bassa Sassonia, per quanto ricordo, era pure in DDR”.

La BMW, prima accusata e poi assolta da “Autobild”, perde prima dieci punti in Borsa per poi riprenderli con la smentita. La Mercedes, per parte sua, nega risolutamente di aver mai prodotto automobili. Sergio Marchionne gongola, non avendo il problema di vendite Fiat negli Stati Uniti.

In Oriente, alla Toyota è stato acceso un falò con carburante diesel, ammirato dai dirigenti della Casa delle tre ellissi che brindavano con liquido di batteria.

L’EPA non ha meriti nella scoperta del trucco VW. Lo scandalo parte dalle analisi effettuate dall’International Council on Clean Transportation (ICCT), l’organizzazione nonprofit che si dedica a fornire ricerche ed analisi indipendenti in merito a indicatori ambientali, con particolare attenzione ai mezzi di trasporto. Si legge sul sito che l’organizzazione è finanziata dai proprietari dell’HP. Note di alcune agenzie tedesche comunicano di come l’amministratore delegato Martin Winterkorn, nel suo ultimo giorno di lavoro a Wolfsburg, sia stato visto dilettarsi al tiro a volo. Le stesse agenzie riferiscono di come i piattelli assomigliassero a piccole stampanti a getto.

In questo panorama ancora piuttosto liquido, l’ultimo dubbio è sulla strategia futura della Volkswagen: sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno, farà come il granchio nel secchio, che tira giù i suoi simili che ne vogliono uscire, o come il barone di Münchausen (o Münchhausen), che eseguì mirabilmente il bootstrapping, ossia il cavarsi dal pantano tirandosi su dai propri stessi stivali (o dal codino, come in figura)? Alcuni si fregano le mani in ogni caso, altri sono in mocassini.

BaronMunch