La copertina di Sociologia della creatività scientifica, saggio di Derek de Solla Price pubblicato da Bompiani nel 1973 in seconda edizione (la prima è del 1967) all’interno della collana “I satelliti” presenta cerchi neri su fondo bianco; uno è enormemente più grande degli altri, e contiene il titolo; gli altri, proprio come satelliti, sembrano orbitare confusi attorno a un sole centrale e centrato nella pagina.
L’opera sembra ricordare uno di quei quadri post-sessantottini descritti ne Il pendolo di Foucault:
L’opera sembra ricordare uno di quei quadri post-sessantottini descritti ne Il pendolo di Foucault:
All’inizio degli anni sessanta produceva quadri molto noiosi, tessiture minute di neri e di grigi, molto geometriche, un poco optical, che facevano ballare gli occhi. Erano intitolati Composizione 15, Parallasse 17, Euclide X, Ce n’est qu’un debut, Molotov, Cento fiori.
Chissà quanto la copertina era stata scelta in funzione del contenuto del testo.
Resta il fatto che proprio di grandi e piccoli sistemi parla de Solla Price, a cui si deve il termine big science, categoria nela quale sono inclusi tutti i grandi esperimenti per i quali l’esborso monetario è al di sopra di una certa soglia.
L’analisi del sociologo inglese si inserisce nel filone critico della tecnologia, per il quale punto fondamentale era lo scollamento verificatosi tra dominio scientifico/tecnologico e sfera sociale, dal momento in cui gli esperimenti avevano raggiunto dimensioni non più paragonabili alle sfere d’azione degli individui che li svolgevano, quindi non più funzionali per quelli e in definitiva più difficilmente controllabili, se non con una potente organizzazione centrale.
In sintesi, de Solla Price e i suoi colleghi (tra cui Carson e Snow, assertore delle “due culture”) propugnavano un ritorno a una scala più “umanizzata”, controllabile dalle conoscenze e dalle forze distrettuali, oltre che maggiormente sostenibile da un punto di vista ecologico.
L’analisi, come ovvio, era calata in un mondo dove la realtà industriale produttiva era ancora il fattore trainante, ma è validissima ancora nella situazione odierna, dove una contrapposizione nucleare+centralizzato/solare+delocalizzato non dovrebbe nemmeno esistere nelle menti di chi concepisce un piano energetico sensato. Gli esempi sono molti, e pare che una cecità selettiva colpisca le visioni di molti governanti.
Resta il fatto che proprio di grandi e piccoli sistemi parla de Solla Price, a cui si deve il termine big science, categoria nela quale sono inclusi tutti i grandi esperimenti per i quali l’esborso monetario è al di sopra di una certa soglia.
L’analisi del sociologo inglese si inserisce nel filone critico della tecnologia, per il quale punto fondamentale era lo scollamento verificatosi tra dominio scientifico/tecnologico e sfera sociale, dal momento in cui gli esperimenti avevano raggiunto dimensioni non più paragonabili alle sfere d’azione degli individui che li svolgevano, quindi non più funzionali per quelli e in definitiva più difficilmente controllabili, se non con una potente organizzazione centrale.
In sintesi, de Solla Price e i suoi colleghi (tra cui Carson e Snow, assertore delle “due culture”) propugnavano un ritorno a una scala più “umanizzata”, controllabile dalle conoscenze e dalle forze distrettuali, oltre che maggiormente sostenibile da un punto di vista ecologico.
L’analisi, come ovvio, era calata in un mondo dove la realtà industriale produttiva era ancora il fattore trainante, ma è validissima ancora nella situazione odierna, dove una contrapposizione nucleare+centralizzato/solare+delocalizzato non dovrebbe nemmeno esistere nelle menti di chi concepisce un piano energetico sensato. Gli esempi sono molti, e pare che una cecità selettiva colpisca le visioni di molti governanti.