Nel libello si tratta delle ragioni ultime per cui i fiocchi di neve hanno la particolare forma esagonale, visibile anche a occhio nudo: Keplero intuisce la soluzione di una classe di problemi, quella della minimizzazione (che si traduce nella soluzione di un problema con il minimo dispendio di risorse), che solamente un secolo e mezzo più tardi avrebbe trovato una formalizzazione stabile. In pratica, il fiocco elementare di neve ha una simmetria esagonale perché in questo modo minimizza lo spazio tra i cristalli, così come le celle dell’alveare, anch’esse esagonali, utilizzano la minima quantità di cera a parità di volume interno utile. La stessa simmetria esagonale è mostrata dalle bilie su di un piano quando le si vuol collocare alla minima distanza reciproca.
A motivo primo della simmetria esagonale, Keplero porta la volontà divina, che si attua attraverso vie imperscrutabili, ma condotte in ogni modo attraverso numeri e simboli. Così il sei è numero che rappresenta la trinità con i suoi analoghi: il Sole per il Padre, la sfera delle stelle fisse per il Figlio e i sei pianeti (quelli noti) per lo Spirito Santo. Allo studioso è lasciata solo qualche ipotesi, come la presenza di un qualche sale che funga da catalizzatore della struttura cristallina. Poco più di una consolazione.
Proprio mentre Keplero scriveva la Strena, un altro celebre scienziato, l’astronomo Gian Domenico Cassini, direttore dell’Observatoire parigino dal 1671, descrisse con disegni ricchi di particolari le forme e le caratteristiche dei “fiori di brina”, per come erano anche chiamati i fiocchi di neve.
In un volume dei Comptes rendues dell’Académie parigina apparvero così bellissime rappresentazioni, che, secondo un costume tipico dell’età barocca, lasciavano spazio a qualche “voluta” aggiuntiva.
Anche il fisico Robert Hooke riprende proprio in quel periodo il tema dei cristalli di neve, producendone una delle raffigurazioni più celebri.
Facciamo ora un salto di duecentosettanta anni: “Per neve l’inventore intende particelle acquee congelate in forma di cristalli ed anche ghiaccio ridotto a più o meno fina polvere, somigliante a neve in apparenza”. Così inizia la descrizione della privativa industriale concessa a Frédéric Mackay, di Liverpool, il 31 marzo 1881; il titolo della privativa è “perfezionamenti nella produzione artificiale della neve”.
I metodi utilizzati a quel tempo consistevano per lo più nella frantumazione del ghiaccio; l’invenzione, invece, è degna di nota, perché sfrutta “uno scompartimento o tubo, dove l’atmosfera sia stata ridotta coi metodi conosciuti al punto del congelamento dell’acqua e dove s’inietta dell’acqua, preferibilmente ridotta al punto o presso il punto di congelazione sotto tale pressione che la sforzi ad assumere la forma di un fino spruzzo”. Stranamente non è indicato alcun utilizzo del congegno, ma all’epoca erano forse troppo pochi gli sciatori, e ancora meno gli inverni poveri di neve. In ogni caso, si tratta della prima applicazione nota di un principio ancora oggi utilizzato per la produzione artificiale della neve.
Le prime applicazioni note della neve artificiale sono da ricercarsi negli Stati Uniti, dove tuttavia, ancora negli anni ’20, i mezzi per preparare la neve artificiale consistevano nella tritatura del ghiaccio, le cui porzioni potevano essere taken and used for edible or other purposes (“prese e usate a scopi alimentari e di altro genere”). L’unica finalità certa era quella alimentare, magari a corredo di un dolce; altri scopi non erano meglio noti.
(continua)