02 – la storia nel caos

(continua il post del 26/02/2010, h. 17.00)

Il saggio di Carr affronta ancora un tema che sembra anticipare una teoria, che proprio negli anni attorno alla pubblicazione di Sei lezioni sulla storia vedeva la comparsa di un articolo fondamentale. Si tratta della teoria del caos (e di quella dei frattali, alla prima intimamente legata), con l’articolo di Edward N. Lorenz Deterministic non-periodic flow, apparso sul “Journal of the Atmospheric Sciences”, vol. 20, pp. 130–141 (1963). Per quanto la trattazione del problema sia non banale, il messaggio principale che ne viene, e che ben si adatta a una giustificazione del metodo storico per come definito qui sopra, è il seguente: piccole, quasi insignificanti modificazioni (propriamente, “nel continuo”) delle condizioni iniziali possono portare a mutamenti radicali (propriamente, “nel discreto”) nei risultati finali. Il naso di Cleopatra e la scimmia di re Alessandro sono esempi di questi piccoli fattori perturbanti iniziali, che hanno risultanze enormemente maggiori.
La storia è così in balía di ogni refolo di vento?
Anche qui viene in soccorso l’assunzione per la quale i fattori più importanti determinano l’andamento di fondo delle vicende storiche. Esistono variazioni indotte da nasi e scimmie, ma si tratta di “disturbi” che in realtà non mutano le correnti di lungo corso; anzi, in alcuni casi si potrebbe dire che ne facilitano l’emergere.
Secondo Carr, è pur vero che i grandi uomini hanno plasmato la storia, ma se fossero nati e vissuti in epoche o luoghi diversi, non sarebbero certo stati grandi uomini. Seguendo la definizione di Hegel, “il grande uomo è l’unico che sia in grado di esprimere la volontà del proprio tempo, di dire al proprio tempo quale sia la sua volontà, e di esaudirla”. Sempre secondo Carr, il grande uomo rappresenta forze già esistenti o che egli stesso contribuisce a suscitare con la sua sfida all’autorità esistente. Niente paura, la storia ha le idee chiare, anche se per noi non sono facilmente visibili.
Un’analogia che può forse chiarire come gli eventi singoli e le azioni dei singoli siano o di poca rilevanza, o addirittura non facciano altro che andare – o favorire – in una direzione già tracciata, è quella della valanga. Un fronte di valanga è caratterizzato da una sua instabilità, ossia è probabile che esso si stacchi e scenda verso valle. Non è però agevole sapere quando ciò avverrà, e soprattutto quale sia l’evento che provocherà il distacco. Una palla di neve lanciata a terra in un punto può non sortire alcun effetto, così come mille altre; una successiva sola, invece, può agire su di un punto, una singolarità della conformazione fisica della parete, provocando l’inizio della discesa del fronte nevoso. Ancora, il punto nel quale può si può originare tale evento non è unico, ma nessuno tra questi è noto a priori. La palla di neve non è per forza diversa dalle altre (si concede che è probabile che se è più grande, possa essere più possibile la rottura del fronte); è la sua presenza in un certo punto in un certo istante (non nel cuore dell’inverno, ma in primavera, ad esempio) a rendere l’azione di quella palla determinante.
Nell’analogia, basta sostituire all’idea di fronte della valanga un contesto storico (sociale, economico, tecnologico, religioso, ecc.) e a quella del lancio della palla di neve l’azione del singolo individuo: vi sono delle tendenze di fondo che non possono essere create dai singoli individui; questi, tuttavia, possono essere la causa scatenante di mutamenti di grande portata. Questi avevano già grande probabilità di accadere, e l’azione del singolo non ha fatto altro che dare loro il via.

Quali sono i doveri di uno storico? Il suo agire deve seguire dei dettami etici? Verrebbe da dire che, dati per assunti quelli metodologici, il loro unico dovere è la documentazione: non devono cioè, nell’opera e nell’attività dello storico, entrare attivamente principi etici o morali. Lo storico non deve giudicare ciò che racconta e descrive, pena la distorsione delle valutazioni. Ecco nuovamente la comunità degli storici (si parla sempre di quella principale; potrà sempre esistere, ad esempio, una piccola comunità di storici che supporta il negazionismo) chiamata in causa: se il singolo dà giudizi di merito, sarà essa a riportarlo nell’ambito delle conoscenze condivise.

La storia è oggetto fortemente sociale, nell’oggetto di studio e nella modalità di compimento. Fare storia è come solcare un campo prima della semina. Il terreno è sempre lo stesso, e i solchi fatti dall’uomo si assomigliano, ma non sono mai i medesimi.

(continua)

02 – uno, nessuno e centomila

(continua il post del 26/02/2010, h. 16.30)

La moltiplicazione delle nozioni a disposizione pone problemi sull’uso di Internet come mezzo conoscitivo: pur in presenza di raffinatissimi motori di ricerca, la sensazione dello storico può ancora essere quella descritta ormai una quindicina di anni fa da Umberto Eco, che si descriveva come overwhelmed, “travolto”, dall’immensa mole di rimandi che “la madre di tutte le liste”, ossia Internet, gli proponeva una volta inserito un innocuo “Jerusalem” come chiave nel motore di ricerca. L’attitudine critica rispetto al mezzo Internet deve essere ben presente in chi lo voglia utilizzare come fonte per le proprie ricerche; se si eccettuano le pubblicazioni di articoli cartacei, tutti gli altri materiali devono poter essere attentamente verificati, anche se appartengono (è il caso di Wikipedia) a una rete sociale (si passi la traduzione di “social network”) che per definizione provvede alla loro revisione critica spontanea.
Ciò poiché l’accesso alla pubblicazione sul mezzo Internet è di qualche ordine di grandezza più facile rispetto a quello sulla carta. Attivare un blog non costa molto, anche nulla per l’utilizzatore, mentre una pubblicazione cartacea ha costi di produzione ripetuti ogni volta. L’attenzione alla validità dei contenuti è fondamentale per la stessa sopravvivenza del mezzo (posso invece scrivere un sacco di fandonie su di un blog senza per questo vederne la chiusura per la non rispondenza dei suoi contenuti con la posizione dominante degli storici su di un certo argomento).

La storia come insieme di fatti e andamenti univocamente determinati non esiste; esiste una nozione (e un suo corrispondente operativo) di storia socialmente e contestualmente variabile, ma in ogni momento coerente con le scelte operate da una stretta cerchia di persone, costituita dai professionisti del campo, gli storici, per l’appunto.
Le interazioni, i rimandi incrociati, le citazioni costituiscono i mezzi attraverso i quali le teorie dei singoli storici sono incluse e fatte proprie dalla comunità; si crea una rete di rimandi, che dà forma a una massa critica di nozioni e interpretazioni, che ha come effetto secondario l’esclusione di una costellazione di studi e pubblicazioni non incorporati perché ritenuti a vario titolo spuri (come la caduta da cavallo di cui sopra).

A questo punto sorge un dubbio: se la storia che studiamo dipende dalle decisioni di pochi, ci possiamo fidare di come è stata “fatta”?

Lo storico inglese Edward H. Carr, è autore di un volumetto, Sei lezioni sulla storia (Torino : Einaudi, 1966), dove espone alcune idee in merito alle ragioni del fare storia e alle motivazioni ultime per le quali la si fa.
Carr ritiene che il lavoro dello storico non possa essere paragonato a quello di un avventore che scelga dei pesci ben ordinati su di un banco al mercato, ma piuttosto alla fatica di un pescatore che si trovi a cacciare le sue prede in un oceano sconfinato. Il punto di partenza è nuovamente quello di Borges: l’infinità del reale (ma se la si tratta come indefinitezza il presupposto non cambia di molto) deve essere commisurata a termini manipolabili per l’uomo.
Aggiunge pure che uno storico non potrebbe mai scrivere due libri uguali su di uno stesso argomento, sostenendo come una qualsiasi interpretazione, oltre che soggettiva, è pure contestuale, dipendendo, ad esempio, dalle ulteriori conoscenze acquisite dallo storico e dalle sue relazioni con la comunità scientifica.
La situazione sembra peggiorare; la storia pare essere sempre più un capriccio di pochi.
Tuttavia, aggiunge lo storico inglese, “Il processo di ricostruzione guida la scelta e l’interpretazione dei fatti e anzi trasforma questi ultimi in fatti storici: i fatti senza un’interpretazione sono simili a sacchi vuoti, afflosciati su se stessi poiché privi di contenuto”. In qualche modo dobbiamo cioè metterci nelle mani di qualcuno che scelga e interpreti, per quanto particolarmente e soggettivamente, un insieme finito di avvenimenti, poiché questo è l’unico modo per non lasciarci travolti (overwhelmed) dalla potenza del continuo del passato.
Nessuno si deve così spaventare se “Chiunque faccia professione di storico, sa, se si ferma un istante a riflettere sul senso del proprio lavoro, che lo storico è perpetuamente intento a adeguare i fatti all’interpretazione e l’interpretazione ai fatti. E’ impossibile assegnare un primato all’uno o all’altro momento”. La soggettività alla base del lavoro dello storico è presupposto immancabile per la sua comprensione dei fatti e delle situazioni; sarà la comunità degli storici a vagliare, smussare, validare e accettare o rifiutare tutte o parte delle teorie esposte. La storia, in ultima analisi, è fatta non da un uomo, ma dagli uomini. Imperfetta sì, ma quanto di meglio si possa avere in giro.
Così come il metodo scientifico oscilla costantemente tra il momento sperimentale e la sintesi dei dati in una teoria, così il metodo storico oscilla tra la selezione dei fatti e l’interpretazione di questi.

Carr prende poi le distanze dagli storici idealisti, come Collingwood, o von Ranke, al quale si deve l’affermazione secondo la quale la storia deve parlare “di ciò che è realmente accaduto”:
“Siamo ben lontani dall’Ottocento, allorché gli scienziati, o gli storici, si aspettavano di poter fissare un giorno, mediante l’accumulo di fatti debitamente saggiati, un insieme di cognizioni che avrebbe risolto una volta per tutte i problemi rimasti aperti. Oggi, tanto gli scienziati che gli storici nutrono la speranza, ben più modesta, di passare via via da un’ipotesi circoscritta a un’altra, isolando i fatti per mezzo delle interpretazioni, e saggiando le interpretazioni per mezzo dei fatti”.

Nel momento in cui il metodo storico sembra allontanarsi dalle pretese di precisione e verificabilità, si avvicina invece al metodo scientifico, per come definito da Karl Popper. Le “congetture e confutazioni” di popperiana memoria sono un traguardo più realistico, e operativamente sono molto più utili. Parafrasando la posizione dell’epistemologo austriaco, potrebbe essere utile pensare un racconto storico come un modo per stimolare ulteriormente la ricerca, aggiungere nuovi documenti, nuove fonti, e modificare il racconto iniziale, per farlo aderire maggiormente a quella che si ritene la Storia.

(continua)