La neve inventata/1

Risale quasi a 400 anni fa, al 1° gennaio 1611, il dono del libello Strena, seu de nive sexangula, da parte di Giovanni Keplero all’amico praghese Johannes Wackenfels.
Nel libello si tratta delle ragioni ultime per cui i fiocchi di neve hanno la particolare forma esagonale, visibile anche a occhio nudo: Keplero intuisce la soluzione di una classe di problemi, quella della minimizzazione (che si traduce nella soluzione di un problema con il minimo dispendio di risorse), che solamente un secolo e mezzo più tardi avrebbe trovato una formalizzazione stabile. In pratica, il fiocco elementare di neve ha una simmetria esagonale perché in questo modo minimizza lo spazio tra i cristalli, così come le celle dell’alveare, anch’esse esagonali, utilizzano la minima quantità di cera a parità di volume interno utile. La stessa simmetria esagonale è mostrata dalle bilie su di un piano quando le si vuol collocare alla minima distanza reciproca.
A motivo primo della simmetria esagonale, Keplero porta la volontà divina, che si attua attraverso vie imperscrutabili, ma condotte in ogni modo attraverso numeri e simboli. Così il sei è numero che rappresenta la trinità con i suoi analoghi: il Sole per il Padre, la sfera delle stelle fisse per il Figlio e i sei pianeti (quelli noti) per lo Spirito Santo. Allo studioso è lasciata solo qualche ipotesi, come la presenza di un qualche sale che funga da catalizzatore della struttura cristallina. Poco più di una consolazione.
Proprio mentre Keplero scriveva la Strena, un altro celebre scienziato, l’astronomo Gian Domenico Cassini, direttore dell’Observatoire parigino dal 1671, descrisse con disegni ricchi di particolari le forme e le caratteristiche dei “fiori di brina”, per come erano anche chiamati i fiocchi di neve.
In un volume dei Comptes rendues dell’Académie parigina apparvero così bellissime rappresentazioni, che, secondo un costume tipico dell’età barocca, lasciavano spazio a qualche “voluta” aggiuntiva.
Anche il fisico Robert Hooke riprende proprio in quel periodo il tema dei cristalli di neve, producendone una delle raffigurazioni più celebri.

Facciamo ora un salto di duecentosettanta anni: “Per neve l’inventore intende particelle acquee congelate in forma di cristalli ed anche ghiaccio ridotto a più o meno fina polvere, somigliante a neve in apparenza”. Così inizia la descrizione della privativa industriale concessa a Frédéric Mackay, di Liverpool, il 31 marzo 1881; il titolo della privativa è “perfezionamenti nella produzione artificiale della neve”.
I metodi utilizzati a quel tempo consistevano per lo più nella frantumazione del ghiaccio; l’invenzione, invece, è degna di nota, perché sfrutta “uno scompartimento o tubo, dove l’atmosfera sia stata ridotta coi metodi conosciuti al punto del congelamento dell’acqua e dove s’inietta dell’acqua, preferibilmente ridotta al punto o presso il punto di congelazione sotto tale pressione che la sforzi ad assumere la forma di un fino spruzzo”. Stranamente non è indicato alcun utilizzo del congegno, ma all’epoca erano forse troppo pochi gli sciatori, e ancora meno gli inverni poveri di neve. In ogni caso, si tratta della prima applicazione nota di un principio ancora oggi utilizzato per la produzione artificiale della neve.

Le prime applicazioni note della neve artificiale sono da ricercarsi negli Stati Uniti, dove tuttavia, ancora negli anni ’20, i mezzi per preparare la neve artificiale consistevano nella tritatura del ghiaccio, le cui porzioni potevano essere taken and used for edible or other purposes (“prese e usate a scopi alimentari e di altro genere”). L’unica finalità certa era quella alimentare, magari a corredo di un dolce; altri scopi non erano meglio noti.

(continua)

Dvorak, o della dattilografia/2

(continua il post del 6/1/2010)

Il sistema che secondo molti studiosi della storia della tecnologia fu più vicino a scalzare il QWERTY dal proprio predominio prese il nome da uno dei due studiosi che lo congegnarono, August Dvorak (l’altro fu William Dealey).
Si cita spesso lo Dvorak come il sistema più efficiente, quello che necessita di minori spostamenti delle dita per la composizione delle lettere, e soprattutto quello più veloce. In effetti, buona parte dei record di velocità nella battitura sono stati realizzati proprio con questa tastiera (attualmente il record mondiale appartiene a una signora russa che è riuscita a digitare attorno alle 900 battute in un minuto).
Tuttavia, esistono alcuni ragionevoli dubbi in merito alla reale affidabilità di alcuni test che porrebbero il sistema Dvorak davanti agli altri, soprattutto al QWERTY.
Dvorak e Dealey brevettarono la propria tastiera nel 1936, lo stesso anno nel quale apparve un libro, Typewriting Behavior, del quale Dvorak era coautore, nel quale si snocciolavano i risultati dei test che dimostravano scientificamente, almeno secondo le intenzioni, la superiorità del metodo.
Alcune stranezze sono però presenti. I test effettuati avevano preso quattro campioni di riferimento, uno per la tastiera Dvorak e tre per la QWERTY. Sennonché, il campione che utilizzava la Dvorak era composto da ragazzi che frequentavano l’università, mentre gli altri tre comprendevano studenti della scuola superiore. Esiste poi un celebre studio effettuato con dattilografi della Marina americana, che dimostrerebbero ancora una volta la solita tesi; tuttavia, occorre sapere che lo psicologo ed educatore August Dvorak era anche il capitano di corvetta August Dvorak, proprio colui che condusse i test. Dvorak, per sopramisura, ricevette anche 130 mila dollari per lo sviluppo del suo progetto dalla Carnegie Commission for Education.
Vi sono poi omissioni, refusi, incongruenze nei rapporti dei test, che fanno pensare a qualche “aggiustamento” a favore della realizzazione di Dvorak.
Infine, esiste uno studio del 1956, condotto da Earle Strong, al tempo ricercatore della Penn State’s Smeal College of Business, per conto della General Service Administration del governo americano. Lo studio si componeva di due parti: nella prima si prendeva un campione di dattilografi e lo si addestrava all’uso della tastiera Dvorak, sino a che non avessero raggiunto con questo metodo la loro velocità massima ottenuta con la tastiera QWERTY. A questo punto si divideva il campione in due metà, che continuavano l’addestramento ciascuna in una delle due tastiere.
Lo studio mostrò che il miglioramento delle prestazioni era maggiore per gli utilizzatori della tastiera QWERTY. Pur non simmetrico, soggetto a ragionevoli critiche e con qualche contraddizione metodologica, lo studio fu sufficiente per far cadere in disgrazia la possibile sostituta della tastiera QWERTY.

Ovvio che, a margine di questi eventi, la sostituzione di uno standard è cosa di per sé difficile, per le diseconomie dovute al disapprendimento del vecchio metodo, l’apprendimento del nuovo e la sostituzione di tutto il parco macchine. Si tenga presente che l’obsolescenza delle macchine per scrivere, pur sottoposte ad uso intensivo, non è lontanamente paragonabile a quella degli attuali personal computer, per cui uno sforzo di questo genere sarebbe stato visto dalle amministrazioni con un occhio estremamente severo.
I sistemi tecnologici, però, in presenza delle giuste condizioni, banalmente mutano, e chissà che tra qualche anno non ci si possa trovare di fronte a tastiere come la Maltron. Prende il nome dal suo inventore, Lilian Malt, che la concepì negli anni ’70 soprattutto al fine di evitare affaticamenti da stress come la sindrome del tunnel carpale. Quella nell’immagine qui sotto è la versione per la mano destra.

QWERTY, o della dattilografia/1

Nel 1864 l’americano Christopher Sholes ideò una disposizione dei tasti della macchina per scrivere che prese il nome dalle prime sei lettere (“Q”-“W”-“E”-“R”-“T”-“Y”) presenti nella riga in alto della tastiera americana.
La vulgata della storia della macchina per scrivere vuole che la disposizione “QWERTY” sia stata quasi da subito riconosciuta come la migliore, in termini di velocità ed efficienza.
Efficienza per una macchina per scrivere di fine Ottocento (ma anche ben dopo) significava soprattutto scarsa probabilità che due martelletti delle lettere si incontrassero, restando incastrati uno con l’altro. Sholes posizionò le lettere con cura, in modo che i martelletti recanti lettere che con più frequenza si trovavano vicine le une con le altre nelle parole di senso compiuto fossero quanto più possibile distanti.

Tuttavia, l’evento che sancì il predominio della tastiera “QWERTY” e della Remington, che ne aveva acquisito il brevetto da Sholes, fu una gara. Nella quale Franck McGurrin, stenografo di tribunale di Salt Lake City, sconfisse in modo netto lo sfidante Louis Taub, “armato” di una macchina Caligraph a 72 tasti, comprendenti le maiuscole e le minuscole. Taub scriveva veloce per quanto consentiva il metodo “hint-and-peck”, vale a dire cercando visivamente la lettera e percuotendone con l’indice il tasto corrispondente.
McGurrin, dal canto suo, fu il primo a memorizzare la tastiera, e a usare più di un dito per mano per schiacciare i tasti. Ciò permise a lui di vincere, e al sistema Remington-QWERTY di essere considerato senza ragionevole dubbio il migliore in circolazione, sebbene la differenza tra i contendenti fosse data dal metodo di battitura.
“La sua [di McGurrin] scelta della tastiera Remington, che può benissimo essere stata arbitraria, contribuì alla scelta dello standard”, (S. J. Liebowitz, Stephen E. Margolis, Journal of Law and Economics, vol. 33, No. 1 , p. 1-25).
Per gli standard è spesso così: prevalgono perché de facto si adattano a una situazione esistente, risultando la miglior scelta tra quelle possibili non per forza per soli motivi tecnici. Furono necessarie varianti nazionali: in Italia era “QZERTY”, anche se in modo prevalente sino a prima dell’avvento del pc,
in Germania “QWERTZ” (poiché in tedesco la “Z” è più presente della “Y” e per via della frequente prossimità tra “A” e “Z”), in Francia “AZERTY”; tuttavia, lo standard è da sempre l’incontrastato dominatore della scena.
La tastiera “QWERTY” ha avuto numerosi rivali nei suoi quasi 150 anni di vita: D
vorak, Maltron, XPeRT, NSK535S, GKOS per citarne alcuni; tuttavia, nessuno tra questi è mai riuscito a scalzarla dal predominio. Anche se uno sembrò andarci vicino…

(continua)

Etaoin shrdlu, o del riempitivo (ancora)

“Etaoin” e “shrdlu” sono le parole formate dalle lettere delle prime due colonne di sinistra della tastiera delle linotype. Per anni sono state l’inequivocabile segnale di un refuso, per i motivi che si diranno tra poco. Prima però occorre accennare brevemente alle caratteristiche della linotype.
Nel 1881 un emigrato tedesco negli Stati Uniti, Ottmar Mergenthaler, inventava il primo dispositivo meccanico per la composizione tipografica, la linotype. Il sistema prevede un magazzino di alimentazione dal quale scendono i caratteri mobili corrispondenti alle lettere digitate alla tastiera. Le lettere finiscono a comporre una riga di testo, che successivamente è consolidata mediante fusione.
La complessità di queste azioni fece sì che da sempre, nel caso di errore, i linotipisti (ossia coloro esperti nella battitura dei testi alla linotype) preferissero la composizione completa di una riga alla sua correzione, molto più laboriosa.
E la maniera più rapida per completare la riga era di far scorrere il dito lungo le colonne di sinistra della tastiera, producendo proprio le due celebri parole “etaoin” e “shrdlu”.
Questo, come detto, divenne utile segnale per indicare la presenza di un refuso nella compozione, ma si verificava pure che i correttori di bozze non lo vedessero: la stringa risultaa così nella composizione finale, e non raramente era pure pubblicata.
La locuzione “etaoin shrdlu” era così celebre negli Stati Uniti da essere inclusa pure nel dizionario Webster, l’equivalente dello “Zingarelli” italiano, e nell’Oxford English Dictionary.

In epoca di Internet si sarebbe originata un’altra sorta di locuzione, dovuta a una non corretta interpretazione del codice html presente in alcune pagine: “&nbsp”, o “non-breakable space”. Si tratta di una “entità html”, ossia di una frazione di codice che serve a fare interpretare nel modo voluto dei caratteri o delle stringhe di caratteri. In questo caso, l’html non recepisce la presenza di spazi bianchi multipli, collassando a uno spazio un numero qualsivoglia di spazi digitati.
Ad esempio, sostituendo per maggiore chiarezza lo spazio con un trattino basso (underscore), la stringa

prova___di___scrittura

con tre spazi bianchi tra le parole, sarebbe interpretata e visualizzata dal codice html come:

prova_di_scrittura

Per far sì che siano visualizzati tutti gli spazi si adopera proprio “&nbsp”, per cui la stringa (“NBSP” è riportato in maiuscolo per maggiore evidenza)

prova   di   scrittura

avrebbe la visualizzazione richiesta (sempre gli underscore al posto degli spazi a pro della leggibilità):

prova_di_scrittura

Non solo: “&nbsp” fa sì che non si verifichi l’interruzione di riga proprio in quel punto, come normalmente potrebbe avvenire in presenza dello spazio bianco ordinario. Questa caratteristica torna utile quando si hanno locuzioni che si preferisce mantenere non spezzate, come ad esempio “1000 km”, o qualsiasi altra. Scrivendo “1000 km” nel codice (sempre con le lettere minuscole), l’interpretazione del browser sarà l’immissione di uno spazio tra “1000” e “km”, senza separare le due parole anche nel caso in cui “km” dovesse andare a capo.

Nella prima ondata di Internet (primi anni ’90) alcune visualizzazioni non avvenivano in modo corretto per l’assenza del punto e virgola al termine della stringa, condizione necessaria per il funzionamento del codice. Si vedevano così stringhe proprio come quella sopra, con “&nbsp” presente in gran quantità, a detrimento della lettura del testo. Da qui nasce la fama di “&nbsp”, che in qualche modo denotava i siti costruiti in modo un po’ più raffazzonato. Spesso la storia degli errori dice molto di più della storia delle correzioni.

P.S.: “&nbsp” può essere prodotto in ambienti word processor con la combinazione di tasti ALT+160 o con CRTL+SHIFT+SPAZIO. Peraltro, sino a prova contraria, non è possibile inserire tale carattere in Powerpoint.

Lorem ipsum, o del riempitivo

La sezione 1.10.32 del De finibus bonorum et malorum (“Gli estremi del bene e del male”), saggio sulla teoria dell’etica, scritto da Cicerone nel 45 a.C. e molto in voga nel Rinascimento, così recita:

Sed ut perspiciatis unde omnis iste natus error sit voluptatem accusantium doloremque laudantium, totam rem aperiam, eaque ipsa quae ab illo inventore veritatis et quasi architecto beatae vitae dicta sunt explicabo. Nemo enim ipsam voluptatem quia voluptas sit aspernatur aut odit aut fugit, sed quia consequuntur magni dolores eos qui ratione voluptatem sequi nesciunt. Neque porro quisquam est, qui dolorem ipsum quia dolor sit amet, consectetur, adipisci velit, sed quia non numquam eius modi tempora incidunt ut labore et dolore magnam aliquam quaerat voluptatem. Ut enim ad minima veniam, quis nostru[m] exercitationem ullam corporis suscipit laboriosam, nisi ut aliquid ex ea commodi consequatur? Quis autem vel eum iure reprehenderit qui in ea voluptate velit esse quam nihil molestiae consequatur, vel illum qui dolorem eum fugiat quo voluptas nulla pariatur?

La traduzione suona più o meno così:

“Ma devo spiegare a voi come tutta questa idea erronea di denuncia del piacere e dell’elogio del dolore nasce, per cui produrrò un resoconto completo del sistema, ed esporrò gli insegnamenti reali di un grande esploratore della verità, il principale costruttore della felicità umana.
Nessuno scarta, disdegna o evita il piacere in sé, perché è piacere, ma perché coloro che non sanno perseguire razionalmente il piacere incontrano conseguenze estremamente dolorose. Né vi è ancora chi ami o persegua o voglia ottenere dolore, perché è dolore, ma perché si presentano occasionalmente circostanze nelle quali il duro lavoro e il dolore possono dargli grande piacere. Per per fare un esempio insignificante, che di noi intraprende mai l’esercizio fisico faticoso, tranne che per ottenere un certo vantaggio?
Ma chi ha qualsiasi diritto di trovare in difetto un uomo che sceglie di godere di un piacere che non ha conseguenze fastidiose, o di uno chi evita un dolore che non produce piacere?”

Molte sono le considerazioni che sorgerebbero in merito alla validità universale (o meno) delle considerazioni ciceroniane, tuttavia è altro che preme qui segnalare.
Nel testo latino sono grassettate alcune parole ed alcune porzioni di parole: esse compongono il vero tormentone dell’informatica moderna: il “lorem ipsum”. Lo si incontra ad esempio nelle strutture esemplificative delle diapositive di Powerpoint, facente parte della suite di Microsoft Office. Si tratta di una sequenza di lettere – si parla di sequenza perché non ha senso compiuto, si tranquillizzino i non latinisti – utile a riempire aree che nella versione definitiva del documento saranno occupate da testo.
Il suo uso è attestato sin dai primordi della stampa a caratteri mobili, alla fine del xv secolo, allorché i compositori, dovendo produrre dei campioni di stampa, presero a utilizzare questa stringa di caratteri.
Perché i compositori scelsero di non prendere una frase e riportarla come tale? Molto probabilmente per avere una distribuzione delle lettere dell’alfabeto sufficientemente simile a quella presente nei loro cassettini, contenenti i caratteri metallici. Strano che non si abbia però notizia di alcuno che vi veda un messaggio segreto, che in qualche modo dà la posizione del Graal.

Col tempo si perse memoria della provenienza di questa stringa, sino a quando negli anni ’60 Richard McClintock, un professore di latino allo Hampden-Sydney College in Virginia, mentre cercava le occorrenze di consectetur, lemma abbastanza oscuro, cadde sul testo di Cicerone, ritrovando la sequenza.
Il “lorem ipsum” gode di una seconda giovinezza da quando è stato nuovamente utilizzato in ambito informatico. Su Internet esistono addiruttura dei lorem ipsum generators, dei motori che, attingendo a un vocabolario latino di qualche centinaio di parole, producono una qualsivoglia quantità di testo utile al riempimento. Uno di questi si trova all’indirizzo http://lipsum.com/.

Innocenzo Manzetti, inventore del telefono/2

(continua il post del 2/1/2010)
Il telefono di Meucci, utilizzando la polvere di carbone per convertire il segnale vocale in impulso elettrico e, dall’altra parte, per riconvertire il segnale elettrico in voce, adotta una logica che, con una terminologia successiva, può essere definita come fuzzy: non ci sono solamente due valori validi (l’acceso/spento, lo zero e l’uno, l’on/off, il sì/no, il passa/non passa e così via), ma tutta una serie di valori intermedi, che da un lato danno le “sfumature” della voce umana, e dall’altro permettono un campionamento a frequenza ben maggiore di quella massima (i citati 3 kHz) tipica della voce. L’apparecchio dello scienziato toscano poteva campionare a una frequenza circa doppia (dunque, circa 6000 volte al secondo) il segnale vocale, consentendo così una sua ricostituzione fedele dall’altro capo della linea, e rispettando così la condizione di Nyquist, in virtù della quale il campionamento di un segnale è efficace se la frequenza alla quale questo avviene è almeno doppia di quella del segnale stesso.

Altri precedenti. La pur interessante invenzione di Innocenzo Manzetti perde ulteriormente valore di originalità se comparata con un’invenzione di almeno quattro anni prima. L’invenzione in questione è quella dell’inglese Philip Rice, che ottenne risultati assolutamente simili (e in qualche misura migliori) a quelli di Vanzetti con il proprio apparecchio telefonico. Si tratta anche in questo caso di un apparecchio del tipo make-and-break, probabilmente basato sulla descrizione presentata nel periodico “Didascalia”, nella quale Charles Bourseul prospettava la possibilità di uno strumento capace di replicare la voce umana a distanza.
L’invenzione di Rice fu anche migliore di quella di Manzetti: anziché realizzare un contatto chiuso/aperto, per mezzo della regolazione di un chiodo di contatto l’inventore realizzò un contatto cosiddetto labile, che poteva ammettere valori intermedi tra lo 0 e l’1. Il grosso inconveniente di questo sistema era la necessaria presenza costante di un operatore, che regolasse una vite per mantenere il contatto nella configurazione geometrica iniziale.

Il télégraphe parlant non riveste carattere di particolare interesse per la storia della tecnologia. La sua presunta importanza attestata da vaghe presenze di stranieri recatisi ad Aosta per carpirne i segreti non è giustificata da un reale valore. Ammettendo anche che tali visite possano essere realmente avvenute (si esclude in ogni modo quella ipotizzata di Bell nel 1861, poiché all’epoca l’inventore americano era quattordicenne, come pure fatto rilevare dalla rivista americana “Electrical World”), non è in ogni caso l’interesse suscitato a mutare la natura dell’invenzione.

Anche il risultato dell’indagine, svolta nel 1910, di una Regia Commissione che lavorò per determinare la vera validità del trovato di Manzetti, diede risultati analoghi, in questo caso per l’assenza di una qualsiasi attendibile documentazione relativa al principio di funzionamento.

L’invenzione di Manzetti non ha, in definitiva, gran valore, poiché effettua un campionamento del segnale vocale pensato secondo i “vecchi” schemi di trasmissione del telegrafo, nel quale l’uso di un pulsante permetteva le successive chiusure e aperture del circuito, che a loro volta formavano i simboli di un codice. Il telefono di Meucci e quello di Bell fanno uso di una tecnologia che realizza una logica a valori sfumati, non solo l’“acceso” e lo “spento”, grazie alla quale la voce può essere fedelmente riprodotta.

Il mancato riconoscimento del genio del tecnico valdostano non è da ricercarsi nella sua prematura morte (va peraltro ricordato che Galileo Ferraris, contemporaneo di Manzetti, morì a soli cinquant’anni, e lasciò di sé tracce più che permanenti), e nemmeno nella sua residenza in una zona periferica (Manzetti frequentò diversi anni di scuola a Torino, dove l’Ufficio Brevetti operava in modo proficuo, accogliendo “trovati” ben più bizzarri di quello del “telegrafo parlante”). Piuttosto, il mancato tentativo di far riconoscere la propria invenzione dipende dall’indole poco “pubblica” del genio aostano. Tutto ciò detto, anche se Manzetti avesse ottenuto una privativa industriale, oggi non ne si parlerebbe per certo come il padre del telefono.

Innocenzo Manzetti, inventore del telefono/1

Ogni anno, il periodo estivo vede l’apertura di una mostra, dal titolo “Au fil del ondes – 150 ans de télécommunications en Vallée d’Aoste”. La mostra si tiene presso il comune di Avise (AO), e celebra soprattutto l’inventore del telefono, Innocenzo Manzetti, al quale è dedicata la piazza antistante la stazione ferroviaria di Aosta. Peccato che la sola affermazione indubitabile sia legata al nome della piazza.

Innocenzo Manzetti può indubbiamente essere definito come “genio”: nella propria pur breve vita (morì a 51 anni nel 1877) costruì un automa suonatore di flauto, un pappagallo volante in legno per la propria figlia, una pompa idraulica per la bonifica delle miniere, un tipo di telescopio, una sorta di bicicletta e un tipo di pianoforte, oltre a una serie di strumenti utili alla propria professione di geometra.
Si cimentò anche nella realizzazione di un apparato per la trasmissione della voce umana a distanza. Chiamò tale apparecchio télégraphe parlant, e l’origine di tale applicazione è da ritrovarsi nella sua abitudine giovanile di utilizzare un cappello à gibus per trasmettere, a mezzo di una corda, il suono della propria voce.
Il telegrafo parlante creò una certa risonanza nei giornali italiani; tra il 1865 e il 1866 ne si ebbe notizia in numerosi: “L’indépendant” di Aosta, “Il Diritto” di Torino, “La Feuille d’Aoste”, “L’Italia” di Firenze, “L’Eco d’Italia”, pubblicato a New York, il “Petit Journal” di Parigi, “Il Commercio” di Genova e “La Verità” di Novara. Tale diffusione non ebbe luogo per azione di Manzetti, uomo schivo, ma dei propri conoscenti. La poca attitudine alla formalizzazione dei propri progetti rese possibile la conoscenza del principio di funzionamento del telefono solamente grazie alla trascrizione a opera dell’amico dottor Pierre Dupont, oltre che alle notizie riportate dal canonico Bérard.
Lo stesso Antonio Meucci, portato a conoscenza dell’attività del tecnico Manzetti tramite la lettura de “L’Eco d’Italia” negli Stati Uniti, scelse di puntualizzare la propria posizione con una lettera, inviata sia al medesimo periodico sia a “Il Commercio” di Genova, nella quale poneva l’accento sulle proprie realizzazioni attorno alla trasmissione telefonica, iniziate sin dal 1849.
Il tono di Meucci, in ogni caso, era molto accomodante, con affermazioni del tipo “…non pretendo negare al Signor Manzetti la sua invenzione, ma soltanto voglio fare osservare che possono trovarsi due pensieri che abbiano la stessa scoperta e che unendo le due idee si potrebbe più facilmente arrivare alla certezza di una cosa così importante”, anche se il carteggio dello stesso scienziato toscano con l’amico Enrico Mendelari cercava di escludere ogni possibile forma di divulgazione dei risultati delle proprie ricerche.

Prima e dopo Manzetti. Da un punto di vista tecnologico, il telefono di Manzetti, pur essendo una realizzazione sviluppata in modo indipendente, non ha carattere di originalità.
Prendendo per buoni gli schemi presentati nel testo di Caniggia e Poggianti (Mauro Caniggia, Luca Poggianti, Il Valdostano che inventò il telefono: Innocenzo Manzetti, Aosta : Centro Studi De Tillier, 1996), che a loro volta derivano dalle note del dottor Dupont, si possono compiere alcuni confronti che motivano questa affermazione.

Il confronto con il telefono di Meucci. Il primo confronto è con il telefono di Meucci, che si prese la briga di puntualizzare le proprie precedenze con le lettere a cui si accennava. La fondamentale differenza tra il “trovato” di Meucci e il “telegrafo parlante” di Manzetti è di tipo architetturale, addirittura archetipico.
Manzetti adopera un circuito che attua un campionamento della voce del tipo make-and-break: come già avveniva nel telegrafo, la voce provocava una commutazione del circuito dallo stato aperto a quello chiuso e viceversa, a seconda che la lamina metallica costituente il sistema di ricezione fosse colpita o meno dalla vibrazione originata dalla voce. Strutturalmente, tale circuito non può realizzare un campionamento a frequenza maggiore di quella propria della voce (attorno ai 3 kHz). In altri termini, a fronte di un segnale che varia circa 3000 volte all’interno di un solo secondo, si “preleva” il valore del segnale un numero di volte paragonabile al primo.
Ciò significa che non si trasmette fedelmente il segnale vocale: sarebbe come voler certamente trovare una persona che si ferma per tre ore (non si sa quali) al giorno in un luogo soffermandoci noi stessi in quel luogo per tre ore (scelte a caso) nella giornata.
La figura qui sotto (tratta da http://pcfarina.eng.unipr.it/) dà un’idea più precisa dei rischi di un campionamento a frequenze non sufficientemente elevate.
Campionando a 0,25 millisecondi (effettuando cioè una misura dell’ampiezza d’onda con una frequenza pari alla maggiore delle due frequenze d’onda) si hanno due possibili onde che passano per i punti misurati; campionando a una frequenza doppia (0,125 millisecondi) la possibile ambivalenza, o aliasing, scompare.

(continua)

Introduzione a Technoratio

In un breve tempo questo post finirà in basso, sepolto dagli altri. Ma è il punto di partenza. La storia procede in questo modo: gli eventi fondanti sono quelli più distanti, e per questo sono i più difficili da ricordare. Ugualmente, e forse in misura superiore, gli oggetti e i sistemi tecnologici presenti “sotterrano” quelli passati, che sono dimenticabili e dimenticati.
Il telefono con il compositore a disco è pressoché sconosciuto ai bambini che oggi frequentano la scuola elementare, eppure è l’apparecchio dal quale si sono sviluppati gli attuali cordless. Vale la pena ricordarsene per qualche motivo?
Facciamo una supposizione forte: non è utile, se non per curare qualche prurito intellettuale, ricordare e raccontare la storia passata degli oggetti e dei sistemi (operazioni tipiche della storia della tecnologia), al fine di capire meglio la loro collocazione nella tecnosfera e nella società.
Questo blog si propone di falsificare questa supposizione.

Punti di partenza potranno essere riflessioni su nuovi oggetti, storie di oggetti passati, considerazioni su libri e valutazioni di eventi di portata generale o più strettamente legate ad ambiti tecnologici.