01 – scimmie e dizionari

Il celebre film 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick vede come capitolo introduttivo quello chiamato L’alba dell’uomo. Nella savana di una imprecisata zona dell’Africa vivono delle scimmie antropoidi, la cui alimentazione è prevalentemente vegetariana. Sono divise in branchi, che a volte si scontrano l’uno contro l’altro.
Un mattino sono risvegliate da un forte rumore, con tutta probabilità generato da un monolito nero, che appare e dona loro una nuova e rivoluzionaria forma di intelligenza.
A seguito di questa capacità, il loro capobranco ha un’idea: brandisce un osso lungo di tapiro, e inizia a sferrare colpi con questo. Lo userà come arma contro l’altro branco, e per cacciare piccoli animali. Le scimmie diventano anche carnivore. E’ la nascita dell’utensile, la nascita della tecnica.

Ma che cos’è la tecnica, e che cos’è la tecnologia?
La tecnica può essere definita come qualsiasi forma di attività umana finalizzata alla creazione di nuovi prodotti e strumenti che migliorino le condizioni di vita dell’uomo. La scimmia capobranco di 2001: Odissea nello spazio utilizza un nuovo strumento che migliora le condizioni di vita del proprio gruppo, e quindi utilizza propriamente la tecnica.
Rimanendo nell’ambito della tecnica, poco importa da dove giunga la conoscenza: da un monolito, dal caso o da un altro soggetto, con o senza l’ausilio di supporti (quale può essere un libro). Nell’uomo puramente tecnico non vi è sistematicità di azione, non vi è riflessione sul proprio agire, non vi è programmazione di un trasferimento ad altri delle conoscenze.
Ciò avviene invece con la tecnologia, parola che alla techné somma il logos, il discorso, la parola, in sintesi il pensiero. La tecnologia esiste quando l’uomo riflette sulle proprie azioni e su quelle compiute dai mezzi che utilizza per svolgerle.

Cercando tra alcuni dizionari si trovano queste definizioni:

tecnica [tèc-ni-ca]: 1 l’insieme dei procedimenti pratici da applicare per una specifica attività: Esempio: la tecnica della pittura su stoffa; la tecnica pianistica. 2 Attività umana di progettazione e costruzione di macchine e congegni di vario genere: Esempio: quella macchina è il risultato dei progressi della tecnica moderna.

tecnologia [tec-no-lo-gì-a]: studio dei procedimenti e dei mezzi necessari a trasformare una materia prima in un prodotto industriale: Esempio: i progressi della tecnologia elettronica VEDI tecnica.

Da Italiano compatto – Dizionario della Lingua Italiana, Bologna : Zanichelli, 2010

technique
1. a practical method or art applied to some particular task.

technology
1. the practical application of science to commerce or industry.
2. the discipline dealing with the art or science of applying scientific knowledge to practical problems; “he had trouble deciding which branch of engineering to study”.

Da Wordnet 3.0 (database lessicale inglese sviluppato dalla Princeton University sotto la direzione di George A. Miller)

technique A nf 1 Procédé particulier que l’on utilise pour mener a bonne fin une opération concrète, pour fabriquer un objet matériel ou l’adapter à sa fonction. 2 Ensemble des moyens, des procédés mises en œuvre dans la pratique d’une activité. […] 3 Maitrise plus ou moins grande, connaissance plus ou moins approfondie d’un tel ensemble de procédés. 4 Ensemble des applications des connaissances scientifiques à la production des biens et des produits utilitaires.

technologie nf Étude des techniques industrielles (outillage, méthodes de fabrication, etc.), considerées dans leur ensemble ou dans un domain particulier.

Da Dictionnaire Hachette Encyclopédique – Édition 2002, Paris : Hachette, 2001

La storia della parola, in italiano come in altre lingue, è relativamente recente: risale al 1821 la prima occorrenza del termine in Aquilino Bonavilla, Dizionario etimologico di tutti i vocaboli nelle scienze, arti e mestieri, che traggono origine dal greco, Milano : Pirola, 1821. Inizialmente il significato della parola era “trattato sulle arti” (ove per “arte” si intende qualcosa prossimo all’ars latina, corrispondente abbastanza bene ad “attività”) ed ha successivamente assunto quello di “studio della tecnica e delle sue applicazioni”.

Quasi meglio di Star Wars / 1

L’evento era già capitato qualche anno fa, e i maggiori interessati erano stati i portieri delle squadre di calcio. Qualche lamentela, qualche episodio, ma la cosa si era esaurita in modo abbastanza silenzioso, pur con qualche titolo sui giornali.
Ora, l’uso dei puntatori laser negli stadi calcistici italiani si ripete, in modo più diffuso, sia dal lato degli utilizzatori sia da quello dei bersagli. I portieri non sono più gli unici oggetto di queste attenzioni, ma tutti i componenti delle squadre, per quanto sia possibile “colpirli” quasi solo nelle fasi morte del gioco, a palla ferma.
Ai “puntamenti” negli stadi si aggiungono gli episodi, avvenuti a Bari, di accecamento di piloti di aerei in atterraggio. Sono stati segnalati molti casi, anche se in realtà pare che in nessuno il fastidio abbia costituito pericolo per l’incolumità dei velivoli e dei passeggeri.
Trovare le ragioni di questa maggiore diffusione non è così semplice, poiché la tecnologia dei puntatori è lievemente evoluta negli ultimi anni soprattutto per quanto concerne la potenza disponibile, ma non così tanto da giustificare un tale mutamento.
Una prima analisi dei social network non pare evidenziare resoconti di bravate, ma si fanno notare alcune presenze sul canale italiano di Youtube una volta impostata la ricerca con parola chiave “laser”. Il primo risultato che si ottiene è un video con le indicazioni su “come costruire un laser da 250 mW prendendo il materiale da un masterizzatore di DVD rotto”; il quarto è invece un filmato il cui titolo è “Laser Flashlight Hack” (una sorta di “trasforma una torcia laser”), mentre il sottotitolo recita “Turn a MiniMag flashlight into a burning laser pointer!! “, ossia altre indicazioni su come farsi in casa il proprio potente puntatore laser. L’ulteriore segnalazione “CAUTION!! Lasers can be dangerous! Do not point them at any living thing” rassicura, ma non completamente. Anche perché in entrambi i casi la potenza in gioco è delle centinaia di milliwatt, contro i 5 consentiti dalla legge per gli emettitori in commercio.

Tutti gli emettitori laser sono pericolosi per gli occhi? Lo possono essere anche per altre parti del corpo?

Il fatto è che di puntatori laser non ce n’è un tipo solo. Ce ne sono cinque classi (la 1, la 2, la 3a e la 3b e la 4), divise tra loro a seconda della potenza. Quelli di prima classe sono intrinsecamente sicuri. E così anche quelli di seconda classe, il raggio dei quali è sì visibile, ma di potenza inferiore a un miniwatt. Secondo gli esperti, è sufficiente la reazione istintiva del battito delle palpebre, per proteggere gli occhi dai suoi effetti. Dalla classe 3 si entra infine nel campo dei raggi laser dei quali è vietata la libera vendita dall’ordinanza del luglio del 1998 (ribadita poi dal decreto legislativo 206 del 2005, chiamato anche Codice del consumo).
I raggi di classe 3a hanno una radiazione visibile con potenza inferiore ai 5 miniwatt: sono pericolosi se visti tramite strumenti ottici. Quelli di classe 3b emettono una radiazione visibile o invisibile. La visione diretta o tramite riflessione speculare è sempre pericolosa. Infine, quelli di quarta classe, i cosiddetti laser di potenza. In grado di procurare danni da riflessioni diffuse, danni alla pelle. Inoltre, il loro raggio può scatenare incendi.

(continua)

Un “gioco corretto” – Il cifrario Playfair

Il ponte che da lui prende il nome, dispositivo utile per il calcolo di una resistenza ignota, permette la determinazione di quel valore in modo piuttosto semplice; a Sir Charles Wheatstone si deve anche un’altra tecnica, che mostra analoga semplicità, per la crittazione di messaggi testuali.
Tale tecnica non prende il nome da lui, ma da colui che per primo la presentò in pubblico. Lyon Playfair, barone di St.Andrews, amico di Wheatstone, ne espose il funzionamento ad una cena cui partecipava Lord Palmerston, a quel tempo ministro degli Esteri. Era il 1854; l’anno successivo sarebbe iniziata la guerra di Crimea, ma il codice non fu adottato, forse per un ingiustificato timore legato alla sua complessità di applicazione.
Sarebbero trascorsi quasi 50 anni prima di vedere il cifrario utilizzato in un conflitto, primo scenario nel quale la crittografia era di utilità: nella Seconda guerra boera del 1899-1902 gli Inglesi lo utilizzarono per proteggere i messaggi di rilevanza strategica medio-alta.
Caratteristica fondamentale del cifrario Playfair è la piccola quantità di dati che occorre ricordare per utilizzarlo: una volta apprese 4 regole (precisamente 4) e la chiave di cifratura, si può procedere.

Un esempio diretto può chiarire in modo semplice il funzionamento del cifrario.
Partiamo dalla frase: “Muoveremo stanotte da nord ovest in direzione sud”.

Ora, si considera la frase divisa in gruppi di due lettere, in questo modo:
MU OV ER EM OS TA NO TT ED AN OR DO VE ST IN DI RE ZI ON ES UD, ove il gruppo “TT” diventa “TX”.

Si ha bisogno di una chiave, costituita da una qualsiasi parola o locuzione; diciamo “chiave”. Grazie a questa è formata una griglia, che sarà utilizzata per la trasformazione dei gruppi di 2 lettere. Ecco la griglia (costituita da 25 lettere in luogo delle 26 dell’alfabeto inglese, ma “V” e “W” sono state fuse insieme):

C H I A V
E B D F G
K L M N O
P Q R S T
U W X Y Z

dove le prime lettere, poste per riga a scendere, sono quelle della chiave, e di seguito tutte le altre, in normale ordine alfabetico. Chiaro che con la lunghezza della chiave diventa complessa anche la griglia, ma una chiave lunga è generalmente più difficile da memorizzare.
A questo punto si prendono i gruppi di due lettere, iniziando da “MU”.
Ed ecco una delle quattro regole: si cercano nella griglia le due lettere che formano, con la “M” e la “U”, un quadrato. Si tratta della “K” e della “X”, che formano così il gruppo di due lettere trasformato.
Altri due casi si danno quando le due lettere del gruppo appartengono alla stessa riga o alla stessa colonna nella griglia: in questi casi si scelgono rispettivamente le lettere alla destra e in basso nella griglia. Ovvio che si considera la griglia come “continua”, quindi nel caso in cui una lettera sia l’ultima a destra o in basso, si ricomincia la lettura della riga o della colonna rispettivamente dalla sinistra e dalla lettera in alto.
Nell’esempio, il gruppo “ED”, nel quale le due lettere sono sulla stessa riga, si trasforma in “BF”, costituito dalle due lettere immediatamente a destra.

Una volta trasformato tutto il messaggio, lo si può trasmettere, certamente non insieme alla chiave. Conoscendo questa sarà semplice ripercorrere a ritroso le trasformazioni e ottenere il messaggio originale.

Sin dall’inizio dell’applicazione del cifrario si intravvidero i modi per forzare il codice; tuttavia, normalmente il cifrario fu utilizzato per inviare comunicazioni sì strategiche, ma che perdevano importanza in breve tempo, come nel caso di quelle legate a spostamenti di truppe. Nella maggior parte dei casi i crittografi non riuscivano a forzare il blocco in tempo utile. Nel 1914 ne fu pubblicata la “soluzione”, ossia la tecnica per forzarlo, tuttavia i passi necessari per ottenere questo risultato erano ancora molti.
Il cifrario Playfair fu utilizzato sino a tutta la Seconda guerra mondiale (dai Tedeschi), ma l’avvento dell’informatica lo rese completamente obsoleto. Pur disponendo di 625 digrafi (sono 25 x 25 i gruppi di due lettere), per mezzo dell’analisi delle frequenze, che studia quanto ricorrono le lettere in una certa lingua, e potendo reiterare in gran numero i tentativi sino a trovare una combinazione sensata, un computer attuale non impiega più di qualche secondo per scoprire la chiave scelta.

Riparazioni spaziali

E’ notizia di qualche settimana fa la rottura delle tubazioni di un water closet. Fin qui nulla di strano, se non fosse che questo water closet è quello della Stazione Spaziale Internazionale. Questa orbita intorno alla Terra dal novembre 1998 ad un’altezza di circa 350 km, e dal novembre 2000 ha ospitato in modo continuativo almeno 2 astronauti.
Il problema è in questo periodo un po’ più pressante, per la contemporanea presenza di ben 13 astronauti nella stazione. Si aggiungono infatti ai 6 stabilmente a bordo i sette della navicella “Endeavour”, attualmente in orbita e “attraccata” alla SSI.

L’evento si era già verificato nel maggio del 2008 e nel luglio del 2009; in entrambi i casi gli astronauti ospiti si erano ingegnati per porre rimedio alla situazione (nel 2008 una pompa di ricambio era stata portata dal “Discovery”). In questa occasione si è dovuto ricorrere al bagno di riserva, quello della navicella russa Soyuz, ancorata anch’essa alla SSI. Gli astronauti americani fanno invece uso di quello sullo Shuttle “Endeavour”.
I due moduli “toilette” sono stati costruiti dall’agenzia spaziale russa; il loro costo è stato di diversi milioni di dollari, poiché non svolgono le sole funzioni di una toilette ordinaria. Anzitutto per l’assenza di gravità, alla quale si deve porre rimedio con aspirazioni molto precise. La presenza di sospensioni acquose nell’atmosfera della navicella, infatti, è lungi dall’essere innocua per i suoi abitanti, vuoi per la possibile contaminazione batterica, vuoi perché respirare aria satura di minute goccioline sferiche come quelle nelle quali si ripartisce un liquido in quelle condizioni può rivelarsi mortale: inalata quest’aria, la ventilazione polmonare non riesce a smaltire le goccioline, che saturano i bronchioli, provocando pericolosissimi enfisemi polmonari.
La seconda funzione fondamentale svolta dai moduli è il riciclo dei fluidi corporei umani, che vengono purificati per mezzo di carboni attivi e altri filtri, in modo da poter nuovamente essere utilizzati (ricordando un po’ la funzione delle tute degli abitanti del pianeta di Dune), fosse anche solo per essere elettrolizzati e dare luogo alla formazione di ossigeno.

Così, i Russi avrebbero perso smalto, quello che aveva consentito loro di risolvere in modo stilisticamente ineccepibile il problema dell’angolo di attacco all’atmosfera presentato dalle navicelle americane, la cui forma a tronco di cono le obbligava a manovre molto precise per presentare correttamente le superfici schermate dai materiali refrattari. I Russi realizzarono le capsule (l’esempio è quello della “Vostok”) in forma sferica, sbilanciandole secondo un certo angolo grazie a un’opportuna distribuzione dei pesi.

Ora, situazione contingente a parte, nel corso del 2010 è previsto l’arrivo del modulo “Node 3”, costruito dall’Agenzia Spaziale Italiana (Alenia Spazio) per conto della NASA. Il modulo ottimizzerà la funzione di riciclo dei liquidi e la produzione di ossigeno, analizzando di continuo l’aria presente all’interno della stazione per evidenziare la presenza di sostanze tossiche.
Soprattutto, però, il “Node 3” disporrà di un nuovo modulo toilette. Gli Italiani batteranno i Russi in ritirata?

Ascensori per barche / 2

(continua il post del 25/01/2010)
Dal 1904 gli amministratori affrontarono la prospettiva di dovere chiudere l’ascensore per un periodo più lungo per sostituire gli arieti idraulici. Chiesero allora al loro referente tecnico principale, il colonnello J.A. Saner, di studiare le possibili soluzioni. Saner propose una soluzione innovatrice in cui gli arieti idraulici sarebbero stati sostituiti dai motori elettrici e da un sistema di contrappesi e pulegge, permettendo il funzionamento indipendentemente dei due cassoni.

Anche se questo sistema prevedeva molte parti in movimento in più del circuito idraulico, tutte sarebbero state fuori terra e facilmente accessibili, consentendo così una più facile manutenzione e una vita operativa più lunga. Poiché l’intero peso dei cassoni e dei contrappesi ora sarebbe stato sopportato dalla sovrastruttura dell’ascensore, era necessario rinforzarlo e porla sopra fondamenta più robuste. Tuttavia, prevedendo la costruzione di una sovrastruttura separata intorno alla struttura originale dell’ascensore, Saner stimò di realizzare la conversione con soltanto tre brevi periodi di chiusura.
L’Anderton Lift fu soggetto a profonda ristrutturazione nel 1908. Fu aggiunta una piattaforma che portò l’altezza totale a circa 24 metri; analogamente, l’aggiunta dei moduli ad “A” per sostenere la piattaforma del macchinario ha portato la larghezza alla base a circa 23 metri; furono collocati dei contrappesi di ghisa per bilanciare i cassoni, ai quali furono legati con funi metalliche. A corredo, 36 pile di contrappesi da ogni lato del Lift, ciascuno pesante 7 tonnellate, per complessive 252 tonnellate, proprio quelle del cassone.
Complessivamente si contano 72 ruote dentate; la più grande tra queste, che sorregge l’ascensore e le corde di sicurezza (8 per ciascun lato) pesano 3 tonnellate e mezza.

Dopo la conversione al funzionamento elettrico l’Anderton Lift ha funzionato perfettamente per 75 anni, necessitando della sola manutenzione normale. In particolare, le funi metalliche che sostengono i cassoni hanno sofferto di fatica da stress come conseguenza delle ripetute piegature, e hanno dovuto essere sostituite abbastanza frequentemente. Tuttavia, la manutenzione era più semplice di prima perché il meccanismo dell’ascensore elettrico era completamente fuori terra. Era inoltre meno costosa perché i cassoni erano stati riprogettati per funzionare indipendente; così la maggior parte della manutenzione poteva essere portata a termine con un cassone ancora operativo, così evitando la necessità di chiudere interamente l’ascensore per tutto il periodo delle riparazioni. Un altro lavoro di manutenzione ordinaria era la verniciatura. La nuova sovrastruttura dell’ascensore convertito risultò suscettibile di corrosione. Per ridurre questa corrosione l’intero ascensore è stato verniciato con una soluzione protettiva di catrame e di gomma, che ha dovuto essere rinnovata circa ogni otto anni. Durante il 1941 e il 1942 gli arieti idraulici dell’ascensore originale, che erano stati lasciati nel loro pozzo sotto il bacino di carenaggio costruito durante la conversione del 1908, infine sono stati rimossi per riutilizzarne il ferro.
Durante gli anni ’50 e gli anni ’60 il traffico commerciale sui canali britannici è diminuito. Entro gli anni ’70 il traffico dell’Anderton Lift era quasi interamente ricreativo, ed era quasi nullo durante i periodi invernali. Ancora oggi l’ascensore è visitato da persone provenienti da tutto il Regno Unito.
Un’ulteriore ristrutturazione avvenuta nel 2001 ha visto l’ascensore tornare al funzionamento idraulico: la struttura del 1908 è stata conservata come monumento; i sistemi cilindro/pistone replicano quelli originali; sono lunghi circa 17 metri se completamente ritratti, e quasi 32 se completamente estesi.

Ascensori per barche / 1

Nel sistema delle canalizzazioni inglesi, prima della ruota di Falkirk, in senso cronologico e tecnologico, c’è un’altra struttura, utile alla movimentazione verticale di barche e chiatte. Si chiama ”Anderton Boat Lift”, ed è una sorta di ascensore nautico grazie al quale si colma un disllivello di circa 15 metri.
La struttura fu realizzata nel 1875; era alta circa 18 metri, con un canale superiore di accosto di circa 50 metri di lunghezza, e una larghezza del sistema di circa 15 metri.
Se la Falkirk Wheel muove cassoni il cui peso a pieno si aggira attorno alle 300 tonnellate, quelli dell’Anderton Lift non sono da meno, dislocando 252 tonnellate a pieno carico. Le misure sono altrettanto imponenti: 22 metri di lunghezza, circa 4 e mezzo di larghezza, e circa 3 di profondità.
Il progettista del sistema, Edward Leader Williams, concepì un sistema nel quale due sistemi clilindro/pistone si controbilanciavano e potevano essere spostati agevolmente, richiedendo così una potenza applicata molto piccola.

Il completamento della navigazione del fiume Weaver nel 1734 fornì un itinerario navigabile per il trasporto del sale da Winsford, passando per Northwich, sino a Frodsham, dove il Weaver si unisce al fiume Mersey. L’apertura del canale Trent and Mersey nel 1777 fornì un secondo itinerario di trasporto, vicino al Mersey per parte della lunghezza, ma più esteso verso sud verso le attività di estrazione del carbone e le industrie delle ceramiche intorno a Stoke-on-Trent. Piuttosto che farsi concorrenza tra loro, i proprietari dei due canali navigabili decisero che sarebbe stato più vantaggioso cooperare. Nel 1793 fu scavato un bacino nel ramo settentrionale del Weaver, a Anderton, che portava il fiume al piede del canale, 15 metri sotto il livello quest’ultimo.
Furono realizzate strutture per il trasbordo delle merci fra i due canali navigabili, comprese due gru, due scivoli per il sale e un piano inclinato. Nella seconda metà del XIX secolo il bacino di Anderton era uno scambio importante per il trasbordo delle merci in entrambi i sensi, con vasti magazzini, tre piani inclinati e quattro scivoli per il sale. Tuttavia, il trasbordo richiedeva tempo, e gli amministratori della navigazione del Weaver decisero che era necessario un collegamento fra le due vie navigabili onde permettere che le barche passassero direttamente da uno all’altro.
Fu considerato un sistema di chiuse, ma fu presto scartato, principalmente a causa della mancanza di spazio e della perdita di acqua dal canale che sarebbe derivata dall’operatività delle chiuse. Nel 1870 gli amministratori proposero formalmente un ascensore per connettere le due vie. Il bacino di Anderton era il luogo ideale per un tale sistema.
Per i suoi primi cinque anni di relativa vita l’Anderton Lift funzionò egregiamente, con le chiusure più lunghe che sono durante i periodi di tempo freddo quando il canale congelato sopra. Tuttavia, nel 1882 uno dei cilindri idraulici di ghisa collassò, quando il cassone che sosteneva era al livello del canale con una barca dentro. Il cassone discese velocemente, ma l’acqua fuoriuscita dal cilindro collassato fortunatamente rallentò la discesa ed il bacino pieno d’acqua a livello del fiume ammorbidì l’impatto. Nessuno rimase contuso, e la sovrastruttura dell’ascensore risultò integra. Dopo la rottura anche del secondo cilindro, Anderton Boat Lift fu chiuso per sei mesi, mentre entrambi i cilindri furono sostituiti.
I volumi di traffico dell’ascensore crebbero costantemente negli anni 80 e ’90, ma i cilindri idraulici continuarono a dare i problemi. Il principale motivo di incertezza era la corrosione dei pistoni. Al fine di evitare la presenza di elettroliti, che spontaneamente si formavano nell’acqua, dal 1897 il fluido operante adoperato fu l’acqua distillata. Ciò rallentò la corrosione, ma non la arrestò completamente. Negli anni successivi la manutenzione e le riparazioni sono state sempre più frequenti, spesso con la chiusura completa del Lift per parecchie settimane o periodi di funzionamento ridotto con un singolo cassone.

(continua)

Dune e body scanning

Forse Gordon Matthew Thomas Sumner non ebbe mai capigliatura più fiammante. Nel film Dune (1984) apparve nel ruolo di Feyd-Rautha Harkonnen, delfino del barone Raikonnen nella trasposizione cinematografica della saga di Frank Herbert (1965). Sting nella pellicola ha un ruolo da coprotagonista, essendo il cattivo; la parte predominante del buono, che vince in un classico scontro inter pares, è di Kyle MacLachlan, alter ego visuale (non si può dire “musa”) di David Lynch in diverse realizzazioni, tra cui Twin Peaks e Blue Velvet).
Vi è però un altro cattivo, ancor più rappresentativo e ancora più “linchiano”, vera nemesi del khalos e agathos, del “bello e buono” (ossia, bello perché buono e viceversa, in una mutua condizione di necessità e sufficienza), un prototipale “brutto e cattivo”, al limite del grottesco: il barone Vladimir Harkonnen (interpretato da Kenneth McMillan). Gonfio e purulento in volto, il barone non è calvo, ma è come se lo fosse, essendo i suoi capelli appendice quasi insignificante. Porta una divisa certamente sporca, un tempo pomposa, sotto la quale fasce leggere di cuoio sembrano talvolta essere cucite sull’epidermide. Il suo ventre enfio parzialmente visibile mostra appendici bio-meccaniche, probabilmente sorte di pacemaker a regolarne qualche funzione vitale; non certo armi.
Di armi di qualunque genere, dimensione, proprietà, pericolosità, sono invece da anni in cerca gli operatori della sicurezza negli aeroporti di tutto il mondo. Usano i dispositivi che ben conosciamo per rintracciare prevalentemente oggetti metallici (è arcinoto che i coltelli di materiali ceramici non sono avvertiti da queste scansioni), scovandoli sotto i vestiti e permettendo la loro identificazione/rimozione.
Con l’evoluzione delle armi e degli esplosivi, però, il controllo radiogeno pare non essere più sufficiente per coprire uno spettro significativo delle varietà tecnologiche. Si pone così come oggetto del desiderio di molte amministrazioni aeroportuali il cosiddetto “body scanner“, un macchinario che consente la visualizzazione molto precisa del corpo del passeggero.
Si parla molto di uso morboso di questo strumento, che consentirebbe di fruire di uno spettacolo pornografico a buon mercato, e soprattutto candid, ma le forme glabre e androidi, luminescenti e azzurrastre, restituite a schermo dallo strumento richiamano più quelle del barone Harkonnen che altre.

Esistono oggi due nuove tipologie di analizzatori:

1. a raggi X. Sono inviati da una sorgente, cosicché quelli riflessi e quelli rifratti (ossia la porzione che penetra il corpo umano) possano essere misurati. Il passaggio di una persona sotto questo sistema le comporta un’emissione non trascurabile di radiazione, pari, secondo la SIRM (Società Italiana di Radiologia Medica) a quella ricevuta in due ore di volo transoceanico (ad alta quota è presente una quantità di radiazioni ben maggiore di quella al suolo);

2. a onde millimetriche. Si tratta di onde con una frequenza dell’ordine del terahertz (10^12 hertz). Vista la loro modulazione, sempre con riferimento a quanto affermato dalla SIRM, si può affermare che la quantità di radiazione elettromagnetica ricevuta dal passeggero durante il controllo sia circa un decimillesimo di quella proveniente da una chiamata media al cellulare.
I dati non sono ancora certi; sono poi in corso numerose sperimentazioni, a tutela della salute dell’uomo (ma intanto sistemi di questo tipo sono stati venduti in massa nell’ultimo periodo).
In altre parole, si pensa che le onde emesse abbiano frequenza tale da non interagire con le cellule, variandone caratteristiche, temperatura e quant’altro. Ma la certezza è di là da venire…

Galline, Avatar e resistenze, o della stereoscopia e del 3D / 3

A distanza di soli quattro anni dalla prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière, nel 1899 William Friese-Greene (inventore, tra l’altro, di uno “schermo portatile” sul quale potevano essere visualizzate delle proiezioni) presentò un cortometraggio nel quale la stereoscopia era data dall’interazione di due proiettori, che riproducevano sullo stesso schermo due bobine. La visione stereoscopica era possibile grazie all’uso di uno strumento simile a quello brevettato da David Brewster.
Ancor prima del sonoro (il primo lungometraggio con traccia audio fu Il cantante di jazz, con Al Jolson, nel 1927), fu la stereoscopia a essere utilizzata in proiezioni diffuse commercialmente. E’ del 1922 The Power of Love, per la cui visione erano necessari degli occhiali sui quali erano montate due lenti di colore diverso (verde e rossa). La Metro-Goldwin Mayer fu la prima major a credere realmente in questa possibilità tecnica, e investì in alcune realizzazioni, una delle quali, Audioskopics, nel 1936 ottenne addirittura una nomination agli Academy Awards nella categoria “miglior cortometraggio”.
Si deve però attendere il secondo dopoguerra perché film stereoscopici di buona qualità tecnica appaiano sugli schermi.
Spartiacque di questa evoluzione è Bwana Devil, di Arch Oboler, che pur presentando una qualità della visione mai ottenuta prima (la tecnica è ancora quella dei due proiettori sincronizzati) mostra nel 1952 il nuovo sistema “Natural Vision”. L’uso della stereoscopia tentava di contrastare la nascente televisione, che aveva dimezzato gli ispettatori del cinema in soli 3 anni (dai 90 milioni del 1948 ai 46 del 1951). Nel 1953, anno dell’uscita della tecnica Cinemascope, seguono, tra gli altri, House of Wax (La maschera di cera), horror il cui remake del 2005 ha visto tra i protagonisti niente meno che Paris Hilton, Fort T (Forte T), western classico, John Wayne nel western Hondo, e Miss Sadie Tohmpson (Pioggia), con Rita Hayworth. In Dial “M” for Murder (Delitto perfetto, 1956) di Alfred Hitchcock, una glaciale Grace Kelly tende più volte verso il pubblico la mano armata di forbici, in una scena di particolare efficacia per coloro che indossavano gli adeguati occhialini.
Nel 1974 Andy Warhol diresse nel 1974 un film horror 3D, Il mostro è in tavola… barone Frankenstein. Girato in Italia, il film vedeva come sceneggiatore Tonino Guerra. Prima di Avatar, il film 3D di maggior successo è stato un film erotico del 1969, The Stewardesses (Le hostess in 3D), una commedia erotica americana realizzata nel 1969.
Altro sussulto del cinema 3D ha luogo negli anni ’80: sono del 1982 Lo squalo 3D, Amityville 3D e Friday the 13th Part 3D. Tron mostrò scene tridimensionali basate sulle nuove possibilità della computer grafica. Risale invece al 1980 la tecnologia Imax, seguita a ruota dalla Imax 3D, sulla quale si basò la realizzazione di Transitions, del 1986. Nello stesso anno Michael Jackson e Anjelica Houston furono diretti da Francis Ford Coppola nel cortometraggio Capitan Eo, distribuito solamente nei parchi Disney americani.
Chissà se a causa del movimento grunge, gli anni ’90 e buona parte del decennio successivo segnano il passo per la realizzazione di pellicole 3D. Che tornerà all’ampia diffusione solo con U2 3D, film-concerto degli U2 del 2006. Si arriva così a oggi, con Avatar sui nostri schermi. Il film non ha dunque alcun vero diritto di primogenitura sulla tecnica 3D, e qualcuno sostiene che pure l’idea che ne sta alla base non sia proprio farina del sacco di Cameron & C. Che per intanto si sollazzano alla lettura dei numeri del botteghino.

A oggi si contano circa 250 tra cortometraggi, lungometraggi e trasmissioni televisive realizzate e visionabili con la tecnica della stereoscopia.

Galline, Avatar e resistenze, o della stereoscopia e del 3D / 2

(continua il post del 19/01/2010)
Nelle prime fasi di un corso di elettrotecnica, appena completato lo studio dei componenti passivi di un circuito (gli elementi, cioè, come il resistore, il condensatore e l’induttore, che non generano più energia di quanta ne viene loro fornita), ad una svolta di pagina appare uno strano circuito, simile a prima vista a un aspo per la raccolta del filato. In realtà si tratta del cosiddetto ponte di Wheatstone, insieme di resistenze note (fisse e variabili) e di una ignota, di un generatore di tensione (una pila, ad esempio) e di un galvanometro (misuratore di intensità di corrente) di precisione.
Il dispositivo permette, per mezzo della variazione di una resistenza (ipoteticamente, la r2 della figura), la determinazione della resistenza r4.
Stilisticamente ineccepibile, il ponte di Wheatstone è utilissimo per calcolare efficacemente e in modo preciso le resistenze degli elementi circuitali, e in definitiva per un corretto funzionamento dei circuiti. Sfrutterà il medesimo principio il ponte di Maxwell, o ponte universale, con il quale è possibile misurare anche le induttanze e le capacità.
A Charles Wheatstone si debbono importanti perfezionamenti nella telegrafia; codificò una tecnica crittografica che prese di cifrario Playfair dal nome dall’amico Lord Playfair; nel 1832 inventò uno strumento aerofono (alla famiglia degli aerofoni appartiene anche la fisarmonica) dal quale derivò la concertina; e soprattutto ideò lo stereoscopio, un apparato con il quale poteva effettuare la visione di immagini al fine di percepire otticamente la profondità degli oggetti rappresentati.
Gli sviluppi della fotografia e la corrispondenza con il fotografo William Fox Talbot permisero a Wheastone di sviluppare la tecnica stereoscopica con i negativi; al brevetto dello stereoscopio non seguì tuttavia il successo sperato. Si dovette attendere il perfezionamento dell’invenzione da parte di David Brewster (già ideatore del caleidoscopio) nel 1849 perché l’Esposizione Universale del 1858 portasse alla ribalta il dispositivo. Come per molte altre invenzioni, la “benedizione” della regina Vittoria fu sigillo di certo valore.
Brewster rese portatile lo stereoscopio, trasformandolo da un apparato piuttosto pesante con specchi e prismi a una sorta di binocolo portatile e pieghevole attraverso il quale poteva essere consultata ovunque una coppia di immagini stereoscopiche.
Nel frattempo (1852), si inventava la macchina fotografica stereoscopica, ma la seconda metà del xix secolo portava la tecnica stereoscopica a una prematura fine, surclassata, così come la visione attraverso la lanterna magica e il caleidoscopio (quest’ultimo ridotto quasi a una pura locuzione), dalla nuova tecnica che apparve nell’ultimo decennio del secolo: il cinema.
Sarà la nuova tecnica cinematografica a chiamare in causa la stereoscopia, che nel corso del xx secolo avrà nuovi spazi in combinazione con il movimento delle immagini proiettate. Si passerà ciclicamente dalla paura allo stupore, con rappresentazioni il cui grado di realismo ha fatto porre numerose questioni di tipo filosofico sul significato della visione.

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Galline, Avatar e resistenze, o della stereoscopia e del 3D / 1

Posto che non hanno tasche dove riporre del denaro, e tanto meno capacità prensili per portare con sé un portafoglio con il contante per pagare il biglietto del cinema, per le galline non varrebbe la pena vedere Avatar, l’osannato film di animazione le cui caratteristiche 3D sembrano porlo come pietra di paragone futura per le realizzazioni di questo tipo.
La stereoscopia si basa infatti sulla vista binoculare, che contempla una disposizione frontale degli occhi, ai quali in ogni momento arriva (quasi) la medesima immagine.
La vista binoculare è utile soprattutto per la percezione della profondità, grazie al triangolo i cui lati sono costituiti dalle due linee che uniscono gli occhi con l’oggetto osservato e dalla linea di congiunzione tra i due occhi.

Seguendo un simile principio, i Romani usavano la triangolazione per misurare distanze non note: per calcolare, ad esempio, la larghezza di un fiume, utilizzavano uno strumento detto groma, che permetteva la costruzione di triangoli rettangoli simili (ossia con angoli a uno a uno uguali). Note le lunghezze dei lati di uno dei due triangoli (quello sulla terraferma), si potevano conoscere quelle ignote del triangolo i cui lati non erano completamente percorribile. Per inciso, con la groma si possono solamente misurare gli angoli retti, o tracciare linee rette traguardandovi attraverso.
La conoscenza di tale dispositivo è fondamentale, insieme con l’aratro, per comprendere le modalità dell’antropizzazione del paesaggio compiuta dai Romani.

Tornando alla visione, il cervello degli animali (uomo compreso) con vista binoculare compie costantemente triangolazioni, che consentono la percezione delle distanze e dunque della profondità dello spazio circostante.
Le galline sopperiscono alla loro mancanza anatomica ruotando velocemente la testa per “confrontare” la visione di un occhio con quella dell’altro, ugualmente per stimare le distanze e le profondità.
La visione binoculare è stata utile ai predatori, che grazie a essa possono condurre inseguimenti stimando con ottima precisione la distanza che li separa dalla preda e le variazioni di quella. I rapaci, dal canto loro, compensano l’impossibilità della vista binoculare con diverse caratteristiche e dimensioni del sistema oculare.
Questa caratteristica della visione di alcune specie animali fu scoperta da Euclide, alla fine del iii secolo a.C., ma come in altre occasioni le scoperte scientifiche dei Greci non sfociarono in ulteriori analisi, sistematizzazioni né ricadute tecnologiche.
Non si danno particolari avanzamenti nella consocenza e nell’interpretazione del fenomeno della stereoscopia per lungo tempo; Leonardo da Vinci studiò la materia, ottenendo secondo alcuni (si veda un esempio in http://stereoscopicgioconda.blogspot.com/) una tecnica di tipo stereografico. Altri, invece (James H. Beck, Leonardo’s rules of painting, Oxford : Phaidon Press, 1979) ritengono che Leonardo abbia concluso per l’impossibilità da parte della pittura di rappresentare in modo realistico le profondità.
Nel xvi secolo Giovan Battista della Porta (1535-1615) è accreditato delle prime realizzazioni di disegni stereografici; il lemma “stéréoscopique” si deve al padre gesuita François d’Aiguillon, che nella sua opera Opticorum libri sex philosophis juxta ac mathematicis utiles , che oltre alla stereografia trattava anche delle proiezioni ortografiche, basandosi sugli studi, tra gli altri, di Christiaan Huygens.

Sarà il xix secolo a mettere maggiormente in pratica le conoscenze legate alla stereoscopia, preludendo all’utilizzo di questa a supporto della tecnica cinematografica.

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