Settore di grande importanza per le numerose applicazioni e per il contributo dato allo sviluppo della chimica nel suo complesso è la chimica tintoria, che grande impulso ebbe con la comparsa delle armi da fuoco.
I coloranti naturali erano noti in tutte le aree civilizzate del mondo antico. Estratti principalmente da sostanze vegetali o animali, lavorati con altre sostanze, principalmente minerarie, essi non erano soltanto applicati ai tessuti ma usati per molti altri scopi.
I processi tintori, codificati sin dal x secolo, furono profondamente modificati con la scoperta e la colonizzazione del Nuovo Mondo. Molti furono infatti i colori ivi coltivati che non solo arricchirono la gamma di quelli noti e coltivati in Europa, ma che sostituirono quasi completamente i coloranti locali, come l’indaco e il rosso coccinella.
Sino a quando il combattimento si svolgeva corpo a corpo, o con l’ausilio di armi da taglio o da lancio, le distanze in gioco non ponevano difficoltà nel riconoscimento delle truppe nemiche. Non vi era problema per i Romani riconoscere gli Unni o, in epoca medievale, per un fante riconoscere un suo pari dello schieramento opposto; i cavalieri avevano simboli bene in vista, pur essendo spesso il loro volto celato.
Dalla metà del xv secolo fu necessaria una maggiore riconoscibilità delle truppe attraverso i colori delle divise. Come conseguenza iniziò una lunga ricerca di sostanze capaci di conferire stabilità ai colori, in modo che questi rimanessero tali anche dopo successivi lavaggi, o a sollecitazioni meccaniche come strofinii o altro.
Nella seconda metà del xviii secolo lo scenario si modificò radicalmente. Si modificarono i luoghi, da piccoli laboratori a fabbriche sempre più grandi, i gusti, le mode, e gli attori
A partire dal 1750, soprattutto in Francia, per la grande importanza economica e strategica che settori legati ai coloranti iniziavano ad acquisire, criteri chimici furono applicati sistematicamente ai processi tintori, e una nuova classe di chimici specializzati iniziò a sostituire quella dei Maestri Tintori.
In Piemonte, nel 1789, il Governo, dati i costi per la tintura delle divise per l’esercito e per migliorare un’arte importante per l’economia locale, si rivolse all’Accademia delle Scienze. Nello stesso anno venne formata una commissione apposita che, dopo una accurata divisione del lavoro, iniziò a produrre studi e analisi. Qualche mese dopo fu deciso di bandire anche un premio per uno studio sulla coltivazione del corrispondente indigeno dell’indaco, il guado (ricerche interrotte nel 1792).
Vittorio Amedeo iii nel 1773 varò una riforma dell’esercito che coinvolse anche il colore delle divise: da rosse a blu.
In quegli anni, tutti i paesi europei producevano indaco nelle proprie colonie: la Francia in Santo Domingo, il Regno Unito nella Carolina del Sud e la Spagna in molte sparse colonie.
Le foglie dell’indaco erano lasciate fermentare in appositi locali e indi lavorate fino a ottenere una polvere bianca, successivamente disidratata e compattata, che veniva imballata in varie forme prima di essere esportata.
Nel 1784, il Ministro dei Savoia a Napoli informò il governo che un piemontese di nome Giuseppe Morina aveva, dal 1781, impiantato con successo una fabbrica in cui con il guado locale riusciva a produrre un colorante con caratteristiche molto simili all’indaco.
I coloranti naturali erano noti in tutte le aree civilizzate del mondo antico. Estratti principalmente da sostanze vegetali o animali, lavorati con altre sostanze, principalmente minerarie, essi non erano soltanto applicati ai tessuti ma usati per molti altri scopi.
I processi tintori, codificati sin dal x secolo, furono profondamente modificati con la scoperta e la colonizzazione del Nuovo Mondo. Molti furono infatti i colori ivi coltivati che non solo arricchirono la gamma di quelli noti e coltivati in Europa, ma che sostituirono quasi completamente i coloranti locali, come l’indaco e il rosso coccinella.
Sino a quando il combattimento si svolgeva corpo a corpo, o con l’ausilio di armi da taglio o da lancio, le distanze in gioco non ponevano difficoltà nel riconoscimento delle truppe nemiche. Non vi era problema per i Romani riconoscere gli Unni o, in epoca medievale, per un fante riconoscere un suo pari dello schieramento opposto; i cavalieri avevano simboli bene in vista, pur essendo spesso il loro volto celato.
Dalla metà del xv secolo fu necessaria una maggiore riconoscibilità delle truppe attraverso i colori delle divise. Come conseguenza iniziò una lunga ricerca di sostanze capaci di conferire stabilità ai colori, in modo che questi rimanessero tali anche dopo successivi lavaggi, o a sollecitazioni meccaniche come strofinii o altro.
Nella seconda metà del xviii secolo lo scenario si modificò radicalmente. Si modificarono i luoghi, da piccoli laboratori a fabbriche sempre più grandi, i gusti, le mode, e gli attori
A partire dal 1750, soprattutto in Francia, per la grande importanza economica e strategica che settori legati ai coloranti iniziavano ad acquisire, criteri chimici furono applicati sistematicamente ai processi tintori, e una nuova classe di chimici specializzati iniziò a sostituire quella dei Maestri Tintori.
In Piemonte, nel 1789, il Governo, dati i costi per la tintura delle divise per l’esercito e per migliorare un’arte importante per l’economia locale, si rivolse all’Accademia delle Scienze. Nello stesso anno venne formata una commissione apposita che, dopo una accurata divisione del lavoro, iniziò a produrre studi e analisi. Qualche mese dopo fu deciso di bandire anche un premio per uno studio sulla coltivazione del corrispondente indigeno dell’indaco, il guado (ricerche interrotte nel 1792).
Vittorio Amedeo iii nel 1773 varò una riforma dell’esercito che coinvolse anche il colore delle divise: da rosse a blu.
In quegli anni, tutti i paesi europei producevano indaco nelle proprie colonie: la Francia in Santo Domingo, il Regno Unito nella Carolina del Sud e la Spagna in molte sparse colonie.
Le foglie dell’indaco erano lasciate fermentare in appositi locali e indi lavorate fino a ottenere una polvere bianca, successivamente disidratata e compattata, che veniva imballata in varie forme prima di essere esportata.
Nel 1784, il Ministro dei Savoia a Napoli informò il governo che un piemontese di nome Giuseppe Morina aveva, dal 1781, impiantato con successo una fabbrica in cui con il guado locale riusciva a produrre un colorante con caratteristiche molto simili all’indaco.