E’ di questi giorni l’annuncio del lancio, da parte di Apple Computers, del nuovo sistema, cosiddetto cloud, per mezzo del quale gli utenti di iMac, iBook, iPad, e più in generale di tutta la galassia di dispositivi marchiati con la mela in grado di connettersi alla Rete, potranno riversare contenuti su una memoria remota contenuti che sino a oggi detenevano in uno o più dei propri devices.
La Apple non è la prima azienda a proporre una simile soluzione, se è vero che associata alle caselle e-mail di Google esiste da circa 4 anni la possibilità di usare Gmail alla stregua di un disco fisso (la datazione varia secondo le funzionalità incluse nel pacchetto; in ogni caso Google è arrivata a proporre soluzioni di questo tipo già diversi anni fa). Flickr da anni consente la memorizzazione di immagini personali caricate via Web. E la lista non è finita, a testimonianza di una tendenza che vuole in misura crescente l’uso della memorizzazione remota.
Chiamando in causa l’adagio vichiano, parrebbe che ancora una volta i corsi e ricorsi storici facciano capolino, poiché l’era informatica precedente la personalizzazione dei computer vedeva la presenza di grandi mainframe, ai quali si chiedevano elaborazioni complesse che solo questi erano in grado di svolgere.
L’attuale crescente centralizzazione delle memorie avviene però per altri motivi, come la necessità di sincronizzazione dei file presenti su più dispositivi (soprattutto per i privati), o la remotizzazione dei backup (soprattutto per le aziende) a fini di sicurezza. Il tutto basato sull’accresciuta (e ancora crescente) velocità di trasferimento dei dati a distanza.
Il dubbio, però è semplice quanto legittimo: se, per fare un esempio, le nostre ricerche su Google determinano poi i contenuti dei messaggi pubblicitaari che ci appaiono durante le nostre navigazioni successive, affidarsi come privati (e, peggio ancora, come aziende) a soluzioni di stoccaggio remoto dei file, non potrà rivelarsi mai pericoloso o quanto meno poco provvido?
La Apple non è la prima azienda a proporre una simile soluzione, se è vero che associata alle caselle e-mail di Google esiste da circa 4 anni la possibilità di usare Gmail alla stregua di un disco fisso (la datazione varia secondo le funzionalità incluse nel pacchetto; in ogni caso Google è arrivata a proporre soluzioni di questo tipo già diversi anni fa). Flickr da anni consente la memorizzazione di immagini personali caricate via Web. E la lista non è finita, a testimonianza di una tendenza che vuole in misura crescente l’uso della memorizzazione remota.
Chiamando in causa l’adagio vichiano, parrebbe che ancora una volta i corsi e ricorsi storici facciano capolino, poiché l’era informatica precedente la personalizzazione dei computer vedeva la presenza di grandi mainframe, ai quali si chiedevano elaborazioni complesse che solo questi erano in grado di svolgere.
L’attuale crescente centralizzazione delle memorie avviene però per altri motivi, come la necessità di sincronizzazione dei file presenti su più dispositivi (soprattutto per i privati), o la remotizzazione dei backup (soprattutto per le aziende) a fini di sicurezza. Il tutto basato sull’accresciuta (e ancora crescente) velocità di trasferimento dei dati a distanza.
Il dubbio, però è semplice quanto legittimo: se, per fare un esempio, le nostre ricerche su Google determinano poi i contenuti dei messaggi pubblicitaari che ci appaiono durante le nostre navigazioni successive, affidarsi come privati (e, peggio ancora, come aziende) a soluzioni di stoccaggio remoto dei file, non potrà rivelarsi mai pericoloso o quanto meno poco provvido?