14 – Galileo e il libro della natura

Galileo Galilei nacque nel 1564 a Pisa e morì ad Arcetri (PI) nel 1642. Dapprima studiò medicina nella città natale assecondando le volontà paterne, salvo poi orientarsi verso le discipline matematiche, ottenendo prima un posto di lettore nello Studio pisano e poi una cattedra all’università di Padova. Le opere di Galileo, a differenza di quelle di Leonardo, sono state pubblicate; ciò le ha esposte alla valutazione di una comunità di studiosi, con tutto ciò che ne conseguì per la vita dello scienziato pisano.
Galileo affrontò una molteplicità di temi, che spazia dalla cinematica alla cosmologia, dalla balistica alla fluidodinamica; rimanendo nell’ambito della cinematica, la leggenda vuole che Galileo si interessasse allo studio del pendolo osservando dapprima il movimento del lampadario situato all’interno della cattedrale di Pisa, e successivamente deducendone l’isocronismo delle oscillazioni.

Tra le opere di maggiore importanza di Galileo si hanno:
De motu, 1590 ca. (mai pubblicata, nella quale Galileo afferma, contro Aristotele, che il peso è una qualità intrinseca dei corpi e che la leggerezza è solo una proprietà relativa);
Sidereus Nuncius, 1610 (nel quale Galileo inizia a tracciare la propria teoria cosmologica);
Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, 1612;
Istoria e dimostrazioni intorno alle Macchie Solari, pubblicato dall’Accademia dei Lincei, 1613;
Discorso sopra il flusso e il reflusso del mare, Roma, 1615;
Discorso delle Comete, 1619 (dove si rende conto delle apparizioni di tre comete nell’anno 1618, e si tenta di dare un’interpretazione sulla natura di queste, per concludere che il sistema tolemaico non spiega in modo preciso i moti dei corpi celesti);
Il Saggiatore, 1623 (in cui continuò la polemica con il gesuita Orazio Grassi in merito alla natura delle comete);
Dialogo di Galileo Galilei sopra i due Massimi Sistemi del Mondo Tolemaico e Copernicano, Firenze, 1632, in cui espose il principio di relatività e il suo metodo per determinare la velocità della luce;
Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica et i movimenti locali, Leida, 1638 (pubblicato in Olanda, tratta le leggi del moto e la struttura della materia. Si tratta di un’opera tarda, scritta da un Galileo vecchio, ma è forse la sua opera più importante);
– è infine del 1613 la lettera di Galilei a padre Benedetto Castelli (autore di una celeberrima Della natura delle acque correnti, 1628), nella quale Galileo espone la propria idea in merito al valore metafisico delle Sacre Scritture, da contrapporsi al valore fisico delle scoperte dell’uomo. Tale lettera fu l’inizio delle procedure che porteranno in ultima analisi Galileo all’abiura.

La novità introdotta da Galileo riguarda l’adozione del momento pratico come fondamentale nella dimostrazione della coerenza con il mondo fisico di una teoria scientifica; la prova pratica è il metro che definisce se una teoria è valida o meno. Galileo, nonostante non avesse a disposizione strumenti per la misurazione del tempo (non si deve peraltro a lui, ma a Huygens, la prima applicazione del pendolo a un orologio), sfruttò la sua passione per la musica prendendo come scansione temporale il battito del cuore o il battito delle mani, come nel caso degli esperimenti di rotolamento di bilie su di un piano inclinato.
Proprio in questo caso Galileo diede prova della coniugazione di pratica e teoria, prima intuendo e poi sperimentando che il piano inclinato era un modello utile allo studio della caduta dei gravi, ma che permetteva un allungamento del tempo di caduta di un fattore pari al seno dell’angolo formato dal piano inclinato rispetto all’orizzontale. Riuscì a ottenere la relazione che lega la velocità finale del corpo in discesa con parametri legati all’angolo, alla lunghezza del piano e all’accelerazione di gravità, sintetizzando il tutto nella formula v = [2gl * sen(theta)]^(1/2). Da notare come la relazione tra lunghezza del piano e velocità finale (o tra tempo trascorso e spazio percorso) non è lineare, ma quadratica. La misura di questa relazione fu possibile a Galileo ponendo dei campanelli lungo il piano inclinato al fine di ottenere un intervallo di tempo costante tra i passaggi della bilia in corrispondenza dei campanelli medesimi. Conseguenza accessoria di questi studi fu l’esportazione del concetto di piano inclinato alla vite, definendo appunto questa come formata da un piano inclinato “arrotolato” intorno ad un cilindro.

Galileo ebbe, tra gli altri, il merito di utilizzare per primo, con finalità di osservazione astronomica, uno strumento come il cannocchiale, perfezionato all’inizio del xvii secolo in Olanda, che sino a quel momento era stato utilizzato poiché capace di “ingrandire le cose”, ma rivolgendolo sempre all’osservazione di oggetti piccoli e vicini. Galileo lo diresse in alto, sin dal 1609, quando ne venne a conoscenza e se ne fece produrre uno. Osservò anzitutto la luna e gli altri pianeti, ed è grazie a questo strumento, e a un’attenta osservazione notturna, che si rese conto delle imperfezioni della superficie lunare scoprendo su di essa dei crateri.

Cadeva così la teoria della sfericità e della perfezione della luna: se sino a quel momento tutto ciò che era imperfetto, terra compresa (per quanto centrale nell’universo), era “sublunare”, nel senso che le sfere celesti concentriche contenevano corpi per definizione perfetti, con le osservazioni di Galileo l’imperfezione si estese, comprendendo la luna, e anche il sole (lo scienziato pisano compì osservazioni anche sulle macchie solari).
Confidando nelle possibilità concessegli da papa Urbano viii, Galileo pubblicò nel 1623 Il saggiatore, e se da un canto rimase celebre la sua disputa con il padre gesuita Orazio Grassi, in merito alla natura delle comete (argomento, peraltro, sul quale Galileo formulerà un giudizio che si sarebbe rivelato erroneo), dall’altro le sue teorie sovversive rispetto a quelle ritenute valide dalla chiesa iniziarono ad attirargli le attenzioni dell’Inquisizione, sino a portarlo al processo. Come noto, lo scienziato fu costretto all’abiura, ossia al rigetto della parte delle teorie che tanto scandalo creò presso l’istituzione ecclesiastica. Negli ultimi anni della propria vita Galileo visse appartato, nella sua casa di Arcetri, pur continuando i suoi esperimenti e le sue speculazioni sul mondo fisico.

Galileo si interessò anche allo studio del moto dei proietti, pur non disponendo del concetto di forza introdotto 50 anni dopo da Newton; ugualmente Galileo tenne in considerazione il cosiddetto impetus di memoria medievale, arrivando a dare l’utilissima formulazione per la quale il moto di un proiettile può essere scomposto in una componente orizzontale e una verticale, dettata dalla gravità.

14 – Leonardo: l’ultimo dei non-moderni

Leonardo visse e operò dalla seconda metà del xv al primo quarto del xvi secolo (1452-1519). Parlare di Leonardo fa subito balzare alla mente le sue opere più famose, come la “Monna Lisa”, “L’ultima cena” o alcuni progetti come la vite aerea. La maggior parte delle sue ideazioni, eccetto le opere d’arte, non furono realizzate; se realizzate, rimasero allo stadio prototipale; Leonardo mostrò sempre una scarsa propensione alla realizzazione pratica, forse anche per via della mole teorica da lui concepita. Tuttavia si devono a lui importanti realizzazioni nel campo delle fortificazioni nella sua esperienza francese come ingegnere; così come in Italia, e segnatamente a Milano, il suo apporto fu fondamentale nel progetto della rete dei Navigli a Milano. La parte rilevante della sua attività di progettista riguardò il sistema delle chiuse, che permette il superamento dei dislivelli tra i diversi bracci della rete dei canali. Le singole porzioni della rete, infatti, hanno una pendenza minima, onde consentire la loro navigazione nei due sensi. Si trovano così spesso, per via della conformazione orografica del territorio, a produrre dei “salti”, che devono essere colmati in qualche modo.
Anche gli acquedotti romani avevano la caratteristica di avere un percorso “quasi” orizzontale; tuttavia, in questo caso la pendenza minima era concepita per consentire l’assorbimento delle variazioni del territorio pur consentendo lo scorrimento dell’acqua verso valle, evitando stagnazioni ed eccessive accelerazioni.

Un esempio moderno di risoluzione alternativa del problema relativo a dislivelli tra due canali è quello della ruota di Falkirk. Questa enorme ruota metallica è utilizzata in Scozia, e collega due canali artificiali: il Forth and Clyde e il Canal Union, separati tra loro da un divario di oltre 20 metri; la ruota dentata porta alle estremità due vasche da 360 tonnellate di capacità, capaci di ospitare imbarcazioni fluviali; tramite la rotazione della ruota, possibile grazie al principio di Archimede (che stabilisce l’eguaglianza dei pesi delle vasche, sia piene di sola acqua sia con l’imbarcazione caricata) e a un piccolo motore (25 kw circa) necessario per porre in rotazione la ruota, si può superare la differenza di quota, che il precedente sistema di chiuse rendeva un’impresa dispendiosa sia in termini di manutenzione, sia di tempo.

Sin dal 1488 Leonardo prese l’abitudine di lasciare traccia scritta della propria attività, oggi visibile nel corpus dei suoi “codici”, ovvero dei suoi manoscritti. Volente o nolente, Leonardo non si servì mai della stampa a caratteri mobili, introdotta a pochissimi anni dalla sua nascita. Stampa a caratteri mobili che fu invece utilizzata dagli autori di teatri di macchine. Questi erano opere stampate in tiratura limitata, destinate ad una cerchia ristretta di persone facoltose (venivano spesso donate), composte da testi e illustrazioni delle macchine più spettacolari o evolute di quel momento. L’attenzione dei teatri di macchine era particolarmente rivolta alla tecnologia bellica, così come ad espedienti meccanici “scenografici”.
I codici di Leonardo in quanto tali erano manoscritti non finalizzati alla divulgazione di alcun tipo, sebbene qualche critico propenda a considerare che l’intenzione di Leonardo nella sua consuetudine alla memoria scritta fosse dettata dalla sua volontà di successiva pubblicazione.
Tra i codici di maggiore importanza attribuiti a Leonardo (con gli argomenti maggiormente trattati) si hanno:
Codice Atlantico (anatomia, astronomia, botanica, chimica, geografia, matematica, meccanica, disegni di macchine, studi sul volo degli uccelli e progetti d’architettura, è il più corposo, ed è conservato in Biblioteca Ambrosiana a Milano);
Codice Trivulziano (principalmente architettura, è conservato presso il Castello Sforzesco a Milano);
Codice sul volo degli uccelli (conservato a Torino in Biblioteca Reale);
Codice Ashburnham;
Codici dell’Istituto di Francia;
Codici Forster;
Codice Leicester (acquistato da Bill Gates, riguarda soprattutto studi di idraulica);
Codici di Madrid.

Un legame tra i codici di Leonardo e i teatri di macchine è la volontà di descrivere, sia testualmente sia iconograficamente, un’opera tecnologica. I teatri di macchine, la cui fioritura si colloca nel xvii secolo, erano finalizzati soprattutto alla spettacolarizzazione della tecnologia; dovevano impressionare, e avevano quindi una forte valenza estetica; la loro fortuna terminò già prima della metà del xviii secolo, e furono idealmente superati alla fine dello stesso secolo da un nuovo modo di mostrare gli oggetti: l’esposizione.
Le raffigurazioni iconografiche di Leonardo non possono essere considerati a pieno titolo, pur a fronte della sua stupefacente abilità, dei disegni tecnici, in quanto non presentano elementi come la scala e le quotature, imprescindibili in una rappresentazione che preluda a una produzione.
Vi è in Leonardo un’estrema attitudine analitica: egli separa i singoli componenti delle macchine, così come fa nello studio dei cadaveri, al fine di analizzare i componenti, i loro funzionamenti reciproci, la coesistenza dei sistemi e le loro correlazioni. La progettualità del genio vinciano è evidente, ma come nel caso dell’idea della vite aerea, a fronte di una grande precisione nella rappresentazione e di una volontà di definire materiali necessari, loro trattamento e forza da applicarsi, è alle volte fallimentare a priori; Leonardo non se ne poteva nemmeno rendere conto per la sua scarsa propensione alla sperimentazione pratica.

13 – Fiat lux!

Dal xx secolo a oggi
Un’ulteriore espansione fu determinata dalla distribuzione delle zone residenziali e di quelle commerciali, collegate dalle strade previste per il passaggio di auto e camion.
Gli sviluppi urbanistici furono fortemente legate all’industria dell’autoveicolo, a sua volta legata, soprattutto sino alla Seconda guerra mondiale, alla ferrovia.
La forte immigrazione di operai verso Torino che si verificò sopratutto dagli anni ’50 rese necessaria l’edificazione di nuovi spazi abitativi, che furono collocati principalmente nelle prossimità degli stabilimenti produttivi. Nell’arco di 50 anni tra il 1921 e il 1971, la città di Torino raddoppiò in dimensione, inglobando la campagna attorno, e raggiungendo il milione di abitanti nel 1960. Il 1973 vide il picco della popolazione, con un milione e 200 mila residenti; da quel momento in poi, per effetto di una diminuzione delle attività produttive dislocate in città e per un graduale spostamento verso i comuni periferici, la popolazione ha avuto un calo sino all’inizio del xxi secolo, quando soprattutto per effetto dell’immigrazione dai paesi in via di sviluppo la curva ha invertito la propria tendenza.

Dalla propria costituzione avvenuta nel 1899, la Fiat definì i tre poli fondamentali di sviluppo dell’industria metalmeccanica torinese. Peraltro, la Fiat nacque proprio a Torino anche perché, a causa della presenza della Casa Savoia la città aveva una grande tradizione di produzione di carrozze. Tale produzione permise di disporre della conoscenza necessaria per strutturare gli abitacoli delle autovetture.
In più, da un paio di secoli l’Arsenale aveva compiuto grandi passi nella lavorazione metallurgica: la proto-industria collocata per lo più nella zona del fiume Dora aveva sfruttato la forza dell’acqua per azionare le proprie fucine, per macinare la polvere da sparo e per fondere il metallo necessario per la produzione dei cannoni. Tutte tecnologie che sarebbero tornate utili con l’avvento dell’automobile.

I tre stabilimenti che rappresentano in modo paradigmatico lo stabilimento-tipo per la produzione di autovetture sono:
1. Lo stabilimento di Corso Dante: la Fiat impiantò il proprio primo sito produttivo automobilistico in corso Dante, prossimo al Po. I corpi di fabbrica erano molteplici, poiché non era necessaria la continuità volumetrica. Le automobili erano infatti montate in isole di produzione, dallo chassis e dalle sospensioni, con successivo impianto del motore, dell’abitacolo e dei complementi.
Fino al 2010 (anno nel quale è iniziata una pesante riqualificazione del fabbricato) il corpo principale degli stabilimenti di corso Dante è stato occupato dal centro di formazione Fiat, l’ISVOR, così come un altro edificio ospita il Centro Storico Fiat.
2. Lo stabilimento del Lingotto: progettato dall’architetto Giacomo Mattè Trucco, con esso si introdusse il sistema di produzione tayloristico, importato dall’America. Nel sistema tayloristico, ovvero nella catena di montaggio, l’operaio è fermo su una fase di lavorazione mentre a muoversi linearmente è il pezzo di lavorazione. Lo stabilimento di Lingotto operò dal 1916 al 1980; ha una struttura “verticale” adatta per una produzione dove le parti pesanti venivano lavorate nelle piani inferiori, mentre le parti leggere nei piani superiori. L’edificio fu costruito utilizzando cemento armato e vetro, mentre sul tetto fu collocata la pista prova (inclinata sino a 30° nelle paraboliche) per il collaudo delle automobili. Da notare, soprattutto per effetto dell’adozione del cemento armato, che permise un’estrema riduzione delle parti murarie, le grandi superfici vetrate laterali: proprio grazie a queste fu possibile evitare l’adozione della classica struttura a shed del tetto dell’edificio.
3. Lo stabilimento di Mirafiori: progettato da Bonadè Bottino e iniziato nel 1938, la sua costruzione procedette in tempi rapidissimi, salvo non completarsi per l’inizio della Seconda guerra mondiale. Progettato nel 1936, fu ultimato a tempo di record (in meno di due anni dall’acquisizione dei terreni), e inaugurato il 15 maggio 1939 alla presenza di Benito Mussolini. Entrò però in piena attività solamente nel 1947, dopo essere stato bombardato ed avere testimoniato il primo grande sciopero di stampo antifascista nel 1943. Concepito per estendersi in superficie (e non in altezza, come il Lingotto), fu quasi raddoppiato nel 1958.

13 – fare e disfare

Protagonisti dell’architettura urbanistica fra xvi e xviii secolo
1. Ascanio Vittozzi (1584-1615): espansione della città che progetta le vie dando loro larghezza e dotando gli edifici di portici destinati come spazi per camminare (al contrario dei porticati bolognesi che nascono molto dopo per creare stanze da affittare agli studenti universitari). Nel frattempo il baricentro del castello si sposta verso l’asse del centro città. L’attuale zona di Piazza Vittorio Veneto si chiamava “borgo moschino” dove si ha palude e zanzare; dobbiamo aspettare la restaurazione per la progettazione dell’attuale piazza Vittorio Veneto.
2. 1560-1641 Carlo di Castellamonte sussegue a Vittozzi, e gli attribuiamo la progettazione della piazza di San Carlo (1640): a forma rettangolare chiusa (era delimitata da due isolati della vecchia città quadrata e da due conventi) e con una forte simmetria (reso possibile grazie alla morfologia piatta del territorio), viene progettata per le parate militari pubbliche.
3. inizio del xviii secolo: Filippo Juvarra si occupò della progettazione dei quartieri militari, della Porta Susina e della zona Porta Nord (attuale Porta Palazzo che subirà altri interventi nel 1736). Altre espansioni della città conseguite da Juvarra sono la costruzione della basilica di Superga e il suo collegamento con il Castello di Rivoli, l’attuale corso Francia.
Il 1682 è l’anno di pubblicazione del Theatrum Sabaudiae (stampato in Olanda), opera che negli intenti vuole testimoniare la grandezza del regno Savoia. In questo contesto il termine theatrum ha il significato più generale di rappresentazione di una teoria organica: infatti il libro è corredato di immagini in prospettiva o a volo d’uccello, così come i teatri di macchine contenevano tavole delle realizzazioni meccaniche più evolute ed utilizzate in quel tempo. Il libro era destinato a convincere e rendere nota la potenza raggiunta dal casato Savoia.

Periodo Napoleonico e Restaurazione
L’occupazione francese (1800-1814) comportò l’abbattimento delle fortificazioni e delle mura, sostituite da viali alberati. Anche tutte le successive progettazioni urbanistiche includeranno la creazione di spazi verdi per passeggiate.
Con la Restaurazione (1815) si ebbe la realizzazione della piazza Gran Madre di Dio da parte di Ferdinando Bonsignore, la progettazione della piazza Vittorio Emanuele e il ponte di Bernando Mosca, realizzato su un supporto a forma di curva, a sostituzione del precedente ponte in legno.
Al 1863 risale la progettazione della Mole Antonelliana (citata da Gustave Eiffel nel suo La tour des trois cents mètres, opera nella quale descriveva il suo progetto mastodontico e riferiva delle due più alte costruzioni del tempo, l’obelisco di Washington e proprio la Mole) basandosi sull’architettura metallica e sulla tecnica dei laterizi ovvero dell’imitazione delle nervature reticolari per creare una struttura in grado di resistere a enormi sollecitazioni.
La punta dell’edificio fu ristrutturata varie volte in seguito a uragani che la distrussero, fino a quando nel 1961 viene messa una stella. Oggi la Mole Antonelliana è la sede del Museo del Cinema.
Nel 1884 fu aperta la via Pietro Micca sotto l’egida della legge di Napoli, provvedimento che era stato intrapreso per migliorare le condizioni igieniche e di salubrità generale della città partenopea martoriata dalle epidemie di colera. La via taglia in diagonale il reticolo preesistente a vie ortogonali.
La città continuò a svilupparsi con le infrastrutture quali corsi di ampio respiro, per poi essere fortemente influenzata dalla presenza delle ferrovie. La prima linea fu la Torino-Trofarello (1842) collocata oltre il Po. La ferrovia serviva essenzialmente per trasportare materiali pesanti quali acciaio e carbone, e successivamente fu collegata alle ferrovie francesi attraverso il traforo del Frèjus, completato nel 1871 anche grazie all’opera della perforatrice pneumatica ideata da Germano Sommeiller. Si determinarono in questo modo gli assi preferenziali dell’espansione alla forma moderna della città (Torino sarà per due anni la capitale d’Italia per poi spostarsi a Firenze).

13 – una città disegnata

Torino dalle origini fino al xvi secolo
Torino nacque come un accampamento militare nel 29 a.C., in un’area di precedente dominazione dei Taurini. Durante il periodo romano, Torino godeva dello status di Augusta, essendo piazzaforte di una certa importanza, collocata in una pianura strategica, dal punto di vista territoriale, per il passaggio alla Francia. Vauban stesso sostenne che Torino era la città con la posizione strategicamente migliore al mondo, e l’architettura della città di Torino è influenzata sopratutto dall’obiettivo militare perseguito dai Savoia.
La prima forma della città fu stato proprio il quadrato romano (l’attuale zona di Piazza Castello e i giardini reali), con un angolo “mancante” dovuto alla morfologia del territorio.
Questa area collinare è attraversata dal fiume; successivamente questo è il luogo dove si posizioneranno gli arsenali metallurgici e i mulini per poter sfruttare l’energia della caduta dell’acqua.
Si avevano quattro porte principali sui cardi del lato per accedere all’interno della città: Porta Principalis Sinistra (Porta Palatina), Porta Principalis Dextera, Porta Praetoria e Porta Decumana (la nomenclatura delle porte si basa sul presupposto che l’osservatore guardi verso est). Di queste quattro porte, la Porta Palatina è l’unica rimasta fino a oggi giorno alle ristrutturazioni della città. Lo schema quadrato sopravvivrà fino al Medioevo.
Tra Rinascimento e Medioevo furono introdotte alcune modificazioni: per prima si ebbe l’erezione di mura bastionate sullo schema della centuriazione romana; le mura erano utili per difendersi dalla diffusione di malattie infettive ed eventuali attacchi; rimanevano dei piccoli agglomeramenti al di fuori della città, abitazioni e soprattutto cascine, dove si producevano i prodotti di sussistenza per la città. In città, infatti, non vi erano più coltivazioni, ma attività commerciali e liberali, che come tali non avevano possibilità di esistere senza rifornimenti dall’esterno.

Tra xvi e xviii secolo
Dalla seconda metà del xvi secolo si ebbe una riprogettazione graduale della città secondo direttive ben definite. A titolo di esempio, un confronto con lo sviluppo della città di Roma evidenzia come quest’ultima, cresciuta nei secoli senza pianificazioni di ampio respiro, non presenti alcuna struttura reticolare, se non in piccole porzioni. Con un’espressione chiarificatrice, fu detto che “Roma esportò l’ordine che non fu in grado di mantenere internamente”.
Le ragioni sono da ricercare anzitutto nell’atmosfera politica dell’epoca. Con la formazione degli stati nazionali del xv e xvi secolo, con la crescita della potenza della Francia, e per effetto del nuovo assetto europeo derivante dal trattato di Cateau Cambresis (1559), la dinastia dei Savoia trasferì strategicamente la capitale del ducato da Chambery (attualmente proprio nella regione della Savoia, in Francia) a Torino. Inoltre, l’aumento rapido della popolazione imponeva la necessità di organizzare l’espansione della città.
Cinque anni più tardi fu edificata ex-novo la Cittadella: questa è la piazzaforte dove si aveva il fulcro della potenza di fuoco a protezione degli attacchi francesi da ovest. Allo stesso tempo si ebbe anche un irrobustimento delle mura che circondavano la città medievale. In questo periodo di crescita (alla fine del xvi secolo la città contava circa 20.000 abitanti), assurgono a figure di primo piano Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele i, per via della forte accelerazione che diedero alla politica sabauda, prendendo delle decisioni di grande impatto sul ruolo territoriale ed economico della città e del ducato.
Dopo l’edificazione della Cittadella (1564) ebbero luogo tre sviluppi principali attorno al quadrato romano:
1. contrada nuova a sud: aprì la direttrice che è l’attuale di via Roma e spostò la cinta muraria, che si attestò sulla “Porta Nuova”; spostò il baricentro della città, formando un nuovo asse nord-sud, a metà del quale si innesterà la piazza san Carlo; i lavori di questo ampliamento furono diretti dall’orvietese Ascanio Vittozzi, primo architetto della signoria sabauda, attivo a Torino sino al completamento dell’espansione, nel 1615;
2. la zona del Borgo Po (1673) a Est: si creò via Po come collegamento tra il Castello e il fiume. La via è sghemba rispetto alla griglia delle vie del quadrato romano, poiché è perpendicolare rispetto al corso del fiume; è quindi la via più breve ad esso, per permettere un deflusso più efficace e veloce degli scarichi, terminanti nel cosiddetto “borgo moschino”, corrispondente grosso modo all’attuale piazza Vittorio Veneto da un lato e alla zona della piazza della Gran Madre dall’altro;
3. inizio del xviii secolo: si edificarono i quartieri militari vicino alla Cittadella.
Per effetto di queste linee d’espansione la città assunse in definitiva una forma “a istrice”, una sorta di ameboide chiuso su se stesso e ben protetto dai terrapieni e dai bastioni.

12 – la logica binaria e i censimenti

L’analisi cronologica delle scoperte e dei perfezionamenti delle conoscenze in ambito matematico porta ad analizzare la figura di George Boole, da cui prese il nome un “nuovo” tipo di logica.
Egli ridusse la logica a sistemi algebrici semplici, rappresentando le parti fondamentali del discorso mediante i simboli 0 e 1, e legandole con gli operatori logici. I due valori alla base del sistema di numerazione binario si prestano perfettamente all’utilizzo elettronico proprio perché individuano lo stato fisico di funzionamento dei dispositivi: acceso (0) e spento (1).
La disciplina che prelude l’informatica incontra l’elettricità. A seguito di questo, tra l’altro, si avrà l’incontro tra le tecnologie dell’informazione, rispetto alle precedenti semplicemente associate al calcolo.

Il problema computazionale maggiormente avvertito nel xix secolo era quello dei censimenti. Era estremamente difficile da un punto di vista computazionale gestire le schede di censimento per centinaia di milioni di individui nel minor tempo possibile.
Così come per il problema delle longitudini, il Bureau of Censis americano indisse un concorso atto a premiare la macchina in grado di elaborare i dati più velocemente. Si stimò che se il censimento del 1890 fosse stato realizzato una decade prima, allora sarebbero necessitati circa 11 anni per la completa gestione dei dati.
Il vincitore fu l’ingegnere statunitense Hermann Hollerith, inventore di una macchina basata sullo stesso principio delle schede perforate adottato dal telaio Jacquard. Inizialmente l’analisi dei dati era compiuta da operatori umani, ma presto si introdussero attuatori e contatori elettromeccanici, sollecitati dalle perforazioni.

Il passaggio all’era della meccanografia elettromeccanica fu quasi immediato: numerose furono le aperture di centri di elaborazione di questo tipo, dove si trattavano le informazioni contenute nelle schede perforate e connesse ai più svariati ambiti.
L’esigua velocità e precisione consentite dalla meccanografia, tuttavia, ne decretarono un graduale abbandono a favore di sperimentazioni in cui è sempre più diffuso l’utilizzo di valvole.
Risale al 1929 la realizzazione della prima macchina a relè con registri per i dati, prodotta da IBM (International Business Machines Corporation, azienda leader nel campo di sistemi meccanografici, nata come evoluzione dell’azienda fondata dallo stesso Hollerith, la Dehomag, poi ceduta a T.J. Watson).
La nascita del Mark I nel 1943, nei laboratori della Harvard University, fu subito seguita da quella dell’Eniac, macchina a valvole, ossia diodi e triodi, che sfruttava una codifica binaria. Si tratta del primo vero calcolatore elettronico.
Nel frattempo vede la luce uno dei principali componenti elettronici utilizzati per tutto il resto del secolo, il transistor. Nel 1947, tre ricercatori dei laboratori Bell Labs realizzarono il primo transistor, che basato su materiali semiconduttori, è capace di comportarsi in maniera differente a seconda della corrente presente ai capi del circuito.
Non individuando in esso alcuna potenziale applicazione, gli americani optarono per la sua vendita al Giappone, che invece prese a utilizzare questo componente in maniera massiccia, basando su questo dispositivo una delle più formidabili crescite economiche degli ultimi secoli.

12 – che combinazioni!

Con la rivoluzione scientifica, i meccanismi di calcolo furono perfezionati, al fine di eseguire divisioni e operazioni più complicate. Leibniz, in un lungo lasso temporale, costruì una macchina da calcolo “a passi”, utilizzando un ingranaggio cilindrico di base a denti scalati detto “traspositore”. A lui si deve inoltre la creazione del calcolo combinatorio, in cui si ha una rappresentazione sintetica e simbolica dei dati e lo svolgimento di operazioni logiche rispettando determinate “regole del gioco”.
Il calcolo combinatorio venne ad assumere importanza notevole, ponendo le basi per la realizzazione di oggetti fondamentali in elettrotecnica e poi in informatica.

Esistono tuttavia dei precedenti: nella tavoletta I-Ching, si hanno 6 posizioni di 2 simboli, con cui si possono rappresentare 64 combinazioni differenti, equivalenti a 26; con un sistema di numerazione su base 10, e con 3 cifre, si possono invece rappresentare 1000 numeri. Nei termini del calcolo combinatorio, si tratta di “disposizioni con ripetizione” di n elementi a k a k, con possibile ripetizione di ogni elemento fino a k volte, dove il numero di raggruppamenti effettuabili è frutto della formula:
D’(n,k) = nk
Nel 1709, il matematico e ingegnere veneziano Giovanni Poleni realizzò una macchina aritmetica capace di eseguire le quattro operazioni fondamentali basata su pesi scorrevoli, con funzionamento analogo al sistema di pesi per la carica degli orologi. Progettata interamente in Italia, essa rappresenta uno dei pochi esempi di invenzione nazionale nel settore.

Il funzionamento del telaio consiste nel movimento alternato di una spoletta (shuttle), che corre trasversalmente rispetto a fili tesi, i fili d’ordito, i quali sono mantenuti parzialmente rialzati e parzialmente abbassati, formando la “bocca d’ordito”, e in seguito mutati di posizione, consentendo così l’intrecciamento e la realizzazione della trama finale.
Si hanno due principali modalità di tessitura. Se i fili d’ordito sono comandati singolarmente da un liccio, che li aziona e li rilascia, allora è possibile realizzare delle particolari trame, di complessità anche notevole.
Qualora i fili tesi siano invece comandati (più o meno alternativamente) da due barre, assumendo due sole posizioni relative gli uni rispetto agli altri, il passaggio trasversale del filo di trama permette di ottenere dei semplici tessuti piani.
I primi esempi di telai, ancora di tipo manuale, consentono la stesura di tessuti di misura inferiore a 1,20 m, misura paragonabile la larghezza delle braccia, in quanto il tessitore con una mano doveva guidare la spoletta da un capo all’altro della larghezza della pezza di tessuto in lavorazione, e con l’altra riprenderla quando questa arriva sul lato opposto.
Nel 1733, John Kay brevettò la flying shuttle, in grado di raddoppiare la larghezza della pezzatura e conseguentemente ottenere un raddoppio della produttività delle maestranze impiegate. Il principio è semplice: attraverso un pulsante si comanda, in modo del tutto automatico, lo spostamento della navicella, movimentandolo per mezzo di molle che la spingono da una parte all’altra dell’ordito.

Se i miglioramenti dei complementi delle macchine segnarono tutto il XVIII secolo, il XIX si aprì con l’invenzione di Jacquard.
Un contributo indiretto ma fondamentale all’evoluzione delle macchine da calcolo, si deve a Joseph Marie Jacquard, che nel 1801 presentò il primo telaio automatico, il paradigma della macchina da calcolo moderna.
L’inventore francese implementò una macchina che automatizzava uno degli strumenti più vecchi inventati dall’uomo: il telaio. L’aspetto rivoluzionario del congegno risiede proprio nel suo funzionamento, che per la prima volta nella storia della meccanica applicata, sfrutta lo schema

INPUT → PROCESSAMENTO DATI → OUTPUT

Si tratta del primo impiego di schede perforate, la cui applicazione durerà fino agli anni ’80 del XX secolo, con i centri meccanografici, la cui funzione fu per oltre un secolo anzitutto quella di gestire le presenze dei dipendenti, al fine dell’erogazione degli stipendi.
Nel 1833, con la seconda delle macchine da lui realizzata, Babbage riprese l’idea di Jacquard, e utilizzò le schede perforate per immettere dei dati e fornire quindi informazioni in input alla macchina. Il problema originario che lo portò al concetto di calcolatore programmabile è quello della tabulazione di polinomi, con cui gli astronomi potessero disporre di dati utili per stabilire ad esempio la posizione apparente di una stella.
Il primo tentativo di risoluzione del problema è legato alla “macchina alle differenze” (difference engine), dove la tabulazione mediante il metodo matematico delle differenze, permette il calcolo dei valori di un polinomio ƒ(x) per un dato Δ costante. Tuttavia, le difficoltà tecniche per il montaggio e la notevole precisione richiesta non permisero la sua realizzazione.
L’idea di calcolatore programmabile, presente in Babbage, si concretizzò con la “macchina analitica” (analytical engine). Secondo il progetto iniziale, essa si basava su 2 operazioni:
– Accettazione dei dati in ingresso e conservazione dei risultati parziali
– Esecuzione del calcolo

compiute da alcune strutture fondamentali:
– Memoria (store)
– Unità di calcolo (mill)
– Input (schede perforate, ispirate a quelle del telaio Jacquard)

Ciò che avveniva, in sintesi, era: data una quantità di dai iniziali in magazzino (STORE), attraverso opportune operazioni (MILL), si ottengono dei risultati in uscita (OUTPUT).
Anche in tal caso, la complessità e la mancanza di fondi, ne resero impossibile la realizzazione concreta; l’invenzione non si tramutò mai in innovazione.
Questo non accadde alla macchina degli Scheutz, basata su quella analitica, ma in più dotata di stampante per il completamento dell’output, il cui sviluppo fu finanziato dal governo svedese.

12 – automi, bastoncini e calcoli

La macchina da calcolo, il cui sviluppo tecnologico nell’età contemporanea ha determinato un radicale mutamento nella vita dell’uomo, pur attraversando una prima fase della propria vita segnata dalla caratterizzazione come oggetto di divertimento o quantomeno curioso, vide le proprie origini in tentativi di riproduzione di funzioni svolte dall’uomo. Si trattava essenzialmente della progettazione di automi, atti a replicare operazioni semplici o complesse.
Le stesse macchine per la misura del tempo, i cui primi esemplari solo marginalmente servivano a misurare il tempo, furono dapprima considerate più per la loro valenza scenografica che funzionale. Si trattava cioè di macchine che quasi marginalmente tentavano di fornire una stima dell’ora.
Il fatto che gli automi abbiano generalmente forme antropomorfe fa però cogliere la differenza sostanziale tra due approcci alla progettazione.
Il primo, detto riduzionista, porta alla costruzione di automi che ripetono e imitano attività umane riproducendole in maniera analitica. Il procedimento scompone le funzioni svolte dalle macchine in sottofunzioni, che andranno a essere implementate.
Il secondo, detto olistico, non si interessa dei processi che sono alla base della funzione; il suo unico scopo è quello di ottenere lo stesso risultato finale. Una macchina realizzata secondo tale procedimento è una sorta di “scatola nera”, al cui interno può esserci qualsiasi cosa, ma il cui output deve necessariamente coincidere con quello prefissato in partenza.
L’approccio riduzionista è attivo al principio della tecnologia, quando non si hanno macchine vere e proprie, ma si tratta ancora di leve rudimentali, utensili, ovvero semplici estensioni e potenziamenti dell’arto umano che ne amplificano la forza (tale precisa connotazione dell’utensile si può cogliere osservando le scene iniziali di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, dove alcune scimmie, venendo a contatto con un monolito nero, imparano a usare strumenti, a uccidere animali per cibarsene e a uccidere altre scimmie per conquistarne il territorio).
La nascita delle “vere macchine” si ha quando diventa necessario ottenere una precisione accettabile e slegarsi dalla replica di un gesto naturale, come nel caso del martello che vede come suo successore il maglio. Per questi compiti non ci si può più ispirare alla forma umana e si conviene nell’adottare il secondo approccio alla progettazione, i cui prodotti hanno finalità ugualmente pratiche, ma staccano l’uomo e il suo gesto originario dallo svolgimento della produzione.

Nella storia delle macchine da calcolo, all’inizio si hanno esemplari di piccole dimensioni, con potenze irrisorie e comandate manualmente. Nel 1623, il tedesco Wilhelm Schickart inventò la prima macchina da calcolo con riporto, la cui gestione avveniva attraverso ruote dentate e sistemi meccanici di vario tipo. Tuttavia la sua costruzione non giunse a termine, a causa della morte in un incendio dell’artigiano che la stava costruendo.
Nonostante il passaggio dalla scultura semovente alla macchina operante, la distanza tra utilità e futilità è ancora minima. In una lettera inviata da Schickart a Keplero, si può infatti leggere riguardo il divertimento che la macchina potrà garantire agli operatori (“rideres clare”).
La realizzazione delle macchine da calcolo era in stretta subordinazione alla crescente esigenza di precisione nel calcolo. In questo periodo infatti, gli astronomi stavano lavorando sul problema della longitudine e avevano bisogno della massima accuratezza nell’elaborazione dei dati, per creare le tabelle di navigazione. Queste, a partire da parametri noti, permettevano di individuare la posizione angolare della nave rispetto al meridiano fondamentale di Greenwich.
Il problema dei riporti, lasciato irrisolto da Schickart, era già stato sviluppato in maniera completa da Leonardo da Vinci. Alcuni suoi disegni appartenenti al codice di Madrid e rinvenuti nel 1967, mostrano come egli avesse risolto meccanicamente il passaggio alla potenza superiore.
I continui progressi alla base del passaggio, dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, ebbero come illustre protagonista John Napier. Egli inventò i logaritmi, metodo per eseguire e semplificare calcoli complessi.
Nella sua opera Rabdologia, pubblicata nel 1617, il matematico scozzese illustrò l’invenzione dei bastoncini per il prodotto tra numeri. Ogni bastoncino neperiano individua una colonna della tavola pitagorica e contiene i multipli di una data cifra. Accostando uno vicino all’altro i bastoncini relativi al numero da moltiplicare, e leggendo la riga di interesse, si può eseguire la moltiplicazione di un numero a più cifre per un numero ad una singola cifra.
I bastoncini di Nepero tuttavia, non rappresentavano un dispositivo di calcolo completamente automatico, dato che le somme dei riporti devono essere eseguite manualmente. Questo inconveniente verrà poi risolto nel 1885 dai regoli ideati dal matematico francese Henri Genaille, in grado di eseguire automaticamente il riporto in una moltiplicazione.
Il miglioramento delle capacità tecniche, per mezzo di sistemi meccanici sempre più complessi, consentì a Blaise Pascal di realizzare nel 1643, una macchina calcolatrice nota come pascalina. Questa riusciva a eseguire addizioni e sottrazioni con il riporto automatico delle cifre. La somma era compiuta direttamente, la sottrazione attraverso complementi, la moltiplicazione sotto forma di addizioni ripetute, e la divisione come prodotto del numero inverso o per sottrazioni ripetute.
La macchina funzionava per mezzo di un sistema di ruote ed era ad azionamento diretto: i numeri erano cioè totalizzati ruotando una manopola o una leva.

Il 22 maggio 1649 Pascal ottenne una privativa per la propria invenzione.